Al-Qaeda dopo Bin Laden/ Il culto del martirio

 

Osama Bin Laden è morto e, anche se non ci sono foto che testimoniano il fatto e nessun video ufficiale è andato sul web, ne abbiamo avuto conferma anche da Al-Qaeda. La fine dello sceicco sembra però non coincidere con il declino di un’ideoleogia e di un movimento privo di confini, caratteristiche principali dell’organizzazione terroristica di Al-Qaeda, che in questi giorni lancia nuove minacce. Il ruolo della morte del leader gioca un significato importante per i jihadisti. A spiegarcelo è il Professore Domenico Tosini, ricercatore di sociologia presso la Facoltà di Sociologia di Trento e particolarmente attento ai temi legati al terrorismo e agli attacchi suicida.

Bin Laden è diventato il più grande martire di Al-Qaeda, che ha ammesso di aver preferito la sua morte alla sua umiliazione, ricordando la fine di Saddam Hussein. “Il culto del martirio trova in Al-Qaeda la sua più radicale espressione” spiega Tosini.

Chi sono dunque i martiri e quale ruolo hanno o potrebbero avere in un’organizzazione terroristica come Al-Qaeda in questo particolare momento? Il ricercatore inizia a fornirci alcune indicazioni. Il martire è un volontario che è stato selezionato per compiere un “gesto nobile”: una missione che si concluderà con la sua morte. Prima di morire lascia alla sua comunità un testamento: un video (i primissimi video vennero filmati dagli Hezbollah), una foto, un ritratto o un poster che verrà esposto pubblicamente dopo la sua scomparsa. Mentre la morte di un militante è spesso anonima, quella di un martire porta con sé fama e prestigio, non solo per chi ha scelto di sacrificarsi, ma anche per tutta la sua famiglia. Tosini sottolinea che la “missione” ha un obiettivo politico volto a delegittimare l’avversario e si avvale di un uso deliberato della violenza contro civili (non impegnati in combattimenti). Un’esplicita esibizione di violenza, che fa leva sull’impatto psicologico.

“E’ difficile stabilire un profilo esatto degli attentatoriammette lo studioso. A differenza di quanto si possa pensare, si tratta in taluni casi di persone con un livello educativo medio-alto. Normalmente sono giovani – di età compresa tra i 20 e 30 anni -, provenienti da famiglie delle classi medie. Tra loro ci sono anche donne, ma, rispetto ad altri gruppi armati come i Tamil Tigers, nel caso dei membri di Al-Qaeda la presenza femminile è inferiore”.

Tosini spiega che non esistono prove certe sulle motivazioni predominanti: “E’ senza dubbio rilevante il ruolo che gioca in alcuni casi l’identificazione con la causa politica del movimento di Al-Qaeda: la liberazione dei Paesi musulmani – come l’Afghanistan e l’Iraq – ritenuti ingiustamente sottoposti all’occupazione e all’interferenza di forze non-islamiche, in primis gli Stati Uniti e i loro alleati. Un altro fattore importante è l’influenza e il fascino che il valore assegnato al martirio nella retorica jihadista ha esercitato e continua ad esercitare su alcuni giovani che si sono fatti esplodere (e si fanno esplodere ancora oggi) in Iraq”.

Secondo il ricercatore questi fattori non sono però i soli: “Recenti ricerche hanno messo in luce la pressione esercitata da esperienze traumatiche e da tratti psicologici che facilitano il reclutamento coercitivo da parte delle organizzazioni armate”.

A differenza da Hamas o Hezbollah, in cui le organizzazioni offrono servizi sociali alle comunità e sostengono economicamente le famiglie dei martiri, Al-Qaeda non dà nulla. Da un punto di vista sociologico Tosini insiste su una distinzione netta tra terrorista e criminale: il primo rinuncia alla propria vita terrena per raggiungere un obiettivo politico (diverso a seconda dell’ideologia che condivide), il secondo tiene particolarmente alla vita e al lusso.

Se Bin Laden è diventato dunque il martire per eccellenza, che non ha propriamente scelto di morire, ma ha vissuto la sua missione consapevole di poter perdere la vita in qualunque momento pur di raggiungere i suoi obiettivi, secondo Tosini i membri di Al-Qaeda forse seguiranno il suo esempio: non smetteranno di donare la propria vita per difendere la comunità musulmana dagli Stati Uniti, dai loro alleati e dai governi musulmani corrotti. Continueranno la loro lotta con il sangue e con l’aiuto di Dio e, si potrebbe aggiungere, per nessuna ragione dovranno essere sottovalutati.

 

 

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