DoveStiamoAndando? A cercare di ricuperare il significato delle parole

Andrea Cariglia. Ph. Emanuele Satolli
Andrea Cariglia. Ph. Emanuele Satolli

ISTANBUL – Fascinazione è questa peculiare dimensione dello spazio e del tempo, affiancata da una obiettivamente non comune cortesia umana: ti accompagnerà in pratica a destinazione il passante che parlando solamente turco non può spiegarti la strada; sei in Asia o in Europa? è domanda abituale fissando qualsiasi appuntamento; e sulla costa asiatica a Kadikoy (l’antica Calcedonia) si incrociano con naturalezza millenari echi greci, bizantini, romani, ottomani.
Sorto in pieno centro nel 2015, Kadikoy Theathron ospita compagnie di prosa e gruppi, amatoriali o di professionisti, che propongono recite, prove, workshop, tavole rotonde, conferenze, proiezioni. Sala spettacoli con 1200 posti a sedere, due spazi per prove e messe in scena sperimentali, biblioteca e sala di lettura, foyer (circa 500 mq in totale). Pubblico molto variegato per età, stile di vita, cultura; parecchi intellettuali e artisti, giovani e non, turchi e non, europei e non.

Amleto di Shakespeare è in questo periodo in cartellone: compagnia Caligari, anagramma del cognome del regista, Andrea Cariglia, che la ha costituita due anni fa per mettere in scena il suo Yamyamlar (I cannibali). Interpreti turchi e italiani, una assolutamente confortante mescolanza di idee gusti stili esperienze.

Originario di Lecce, Andrea vi trascorre l’infanzia e l’adolescenza, avendo modo di incontrare anche “persone che sono state determinanti per la mia evoluzione e formazione: un operaio, un sottoproletario, un aristocratico – ultimo barlume di mondi che non ci sono più”. Studi inizialmente a Lecce, una laurea in lettere moderne, poi a Venezia; successivamente, viaggi e lavoro in parecchi Paesi fra cui Portogallo, Gibouti, Cina, Vietnam.

“In palcoscenico bisogna prima di tutto evitare la trappola della narratività; il teatro secondo me non deve essere comunicativo”, dice.

Perché?
“Nella cultura italiana e in genere europea del ‘900, specie seconda parte, la comunicatività esprime una lingua fissa, che non può uscire dagli schemi in quanto deve ripetere contenuti predeterminati. Con il tempo nulla è cambiato, anzi la lingua scritta sembra essere sempre più dipendente dai contenuti (cioè dalle informazioni) mentre l’espressività è andata progressivamente sbiadendo. Nell’arte come nella vita, le parole si stanno man mano deprivando del loro proprio significato; del resto, la maggior parte degli scrittori se n’è accorta, non da oggi. Secondo me, che sono arrivato al teatro tramite la letteratura, per uscire da questa lingua ormai schematizzata, statalizzata, occorre puntare sulla espressività, forzarla”.

Questo come si traduce in palcoscenico?
“Sottolineando il ritmo, la gestualità, valorizzando la comunicazione non verbale, il muovere delle mani; isolando i vari momenti delle varie parti, rifiutando se inserirli in una sequenza”.

Con i classici è più difficile o meno?
“Elevare il grado di emotività, insistendo su un ritmo capace di trasmettere ‘quel’ momento di ‘quel’ personaggio può anzi essere facilitato se, come nel caso di opere famose, tutti gli spettatori conoscono già la trama (almeno in teoria). In più, su questo tipo di testi vengono solitamente operati tagli anche importanti – nell’Amleto originale, ad esempio, i personaggi sono quarantacinque – che eliminano tutta una serie di lungaggini”.

Andrea Cariglia, oggi sulla quarantina, ha cominciato a fare teatro intorno ai 20 anni; “ero innamorato del cinema realista degli anni ’50, tutto espressività e tensione”, ricorda. Dal 2013 vive a Istanbul: “Mia moglie è turca, è stata anche aiuto regista di Ozpetek. Dopo la nascita di mia figlia Laura Neri (omaggio a Sem Benelli) ci siamo trasferiti in questa megalopoli che è davvero unica al mondo. E si sono pure inventati un elegante, deliziosissimo ristorante italiano a Moda, quartiere di Kadikoy.

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