Fuori Concorso al Festival Internazionale del Film di Roma l’affresco più lucido dell’Italia in ginocchio. Se volete capire la portata dell’attuale crisi economica lasciate stare Tg e quotidiani, e pure internet, ma aspettate l’inizio del prossimo anno e andate al cinema a vedere L’industriale. Un film che compie il miracolo di raccontare in maniera lucida e chirurgica il disfacimento pubblico che stiamo vivendo e il dramma personale di un uomo al bivio.
LA MIA VERITÀ – “Noi non scommettiamo sul futuro”. Nella risposta del banchiere all’ingegnere Ranieri, che chiede fiducia, c’è tutto il dramma del film.
In una Torna metafisica, livida e metallica si aggira l’ingegnere quarantenne Nicola Ranieri (Pierfrancesco Favino) proprietario di una fabbrica ad un passo dal fallimento a causa della crisi economica. Gravato dai debiti e respinto dalle banche, pur di non ricorrere ai soldi della perfida suocera, le tenta tutte per salvare l’azienda e non licenziare gli operai.
Nel frattempo il suo matrimonio va a rotoli. La giovane moglie (Carolina Crescentini) trascurata comincia a frequentare un ragazzo romeno, che lavora nel parcheggio del suo ufficio. Ranieri vacilla, gira a vuoto, non sa cosa fare: sta perdendo la fabbrica, sua moglie e forse ha già perso se stesso. E allora diventa Otello e pure Macbeth ed inevitabilmente la tragedia irrompe sulla scena. Dura un attimo l’ebbrezza della vittoria personale (il riavvicinamento alla moglie) e pubblica (con la vendita del pacchetto di minoranza della fabbrica ai tedeschi). La partita è truccata, il topolino è uscito dal labirinto per finire in gabbia.
Tra echi kubrickiani di Eyes Wide Shut e il cinema di denuncia degli anni ’70, Giuliano Montaldo realizza assieme al cosceneggiatore, il giornalista Andrea Purgatori, il suo film più politico proprio perché coraggiosamente incentrato sull’uomo. Un uomo, così realisticamente disegnato da attraversare lo schermo. C’è il tocco di Purgatori nella resa cinematografica della doppia anima del protagonista, eroica ed egoista ad un tempo, e della sua progressiva chiusura interiore.
Se non si “fa” semplicemente un mestiere, ma si “vive” una professione, è inevitabile che perdere il lavoro voglia dire perdere anche la propria identità e di conseguenza tutte le certezze comincino a vacillare. Lo spiega bene Favino: “Il tema del lavoro mi è caro da sempre, ma bisogna pensarlo in termini di identità, non solo di profitto”.
Per questo è fuori strada chi trova che il film ad un certo punto abbandoni l’istanza pubblica (la vicenda della fabbrica) per ripiegarsi eccessivamente sul privato (la crisi coniugale). E’ proprio da qui che bisogna cominciare: riportare il lavoro all’uomo. Riappropriarci della libertà attraverso la rivendicazione dell’integrità, anche con uno scatto d’orgoglio. Scegliere tra la sottomissione alla gelida morsa del mercato e il caldo vento dell’indignazione.
a dir poco stupendo
wow. ma hai talento da vendere, quanto a scrittura. sembra quasi che tu conosca il regista personalmente!
Brava alla giornalista! Sembri quasi innamorata di qualcosa a che fare con il film 😉