Gli alberi hanno le radici; gli esseri umani hanno le gambe. Per muoversi, andare, spostarsi (Georges Steiner)
ROMA – Da sempre l’arte precorre i tempi, li scandaglia, così è per le migrazioni, che coinvolgono tutto il mondo e iscrivono i nostri oggi nella Storia. “Il cinema delle migrazioni” viene per lo più realizzato da autori e registi di seconda generazione (se non prima), a volte anche da artisti non direttamente coinvolti. Se in Francia, sono originari soprattutto arabi; in Germania, turchi.“Di queste opere mi intriga specialmente la naturale duplice ottica di chi si sente ormai cittadino del Paese ospite ma ancora soffre di frustrazioni legate alla famiglia originaria”, osserva Claudio Caruselli, giornalista e critico, direttore della rivista Il Cinemante, Ceo e fondatore della omonima società di produzione.
Approcci e stili peculiari?
Un filone diciamo “identitario” auspica la conservazione a oltranza delle radici – opere di tipo sociologico antropologico quasi saggistico sfociano quasi sempre nel dramma. Un altro filone evoca, anzi auspica, l’integrazione, non dimentica le radici ma non le vive come ostacolo e predilige la commedia (per intenderci Sognando Bechkam)”.
Qualche nome?
“Exil, dramma e commedia di Tony Gatlif, francese nato ad Algeri da madre di etnia Roma – una dicotomia nella sua stessa identità – dipana il viaggio di Zano e Naina, seconda generazione di emigrati, cittadini francesi, che attraversano Francia e Spagna diretti in Algeria patria delle loro famiglie. Man mano ritroveranno le radici, percependosi sempre più in sintonia con la cultura locale, ed estranei alla Francia”.
Almanya, commedia di Yasemin Sandereli, regista tedesca di origine turca, è la storia di un anziano emigrato che appena in pensione acquista una casetta in Turchia, propone alla famiglia di tornare a vivere là, ma i familiari reagiscono indifferenti se non ostili, si sentono ormai tedeschi, soltanto il nipote più piccolo prova una certa curiosità.
La sposa turca, dramma di Fatih Akin, tedesco di origine turca, narra di un matrimonio di facciata che dovrebbe avviare in modo quasi bonario un percorso di integrazione, ma che si trasforma invece in tragedia, soprattutto per lo scontro fra la cultura di origini e quella locale”.
Ci sono temi o spunti comuni?
“Il viaggio e la famiglia. Il primo è uno splendido escamotage narrativo: scorrendo le immagini del Paese di origine e di quello di accoglienza, il paesaggio cambia continuamente insieme con le certezze culturali. La seconda rappresenta il rifugio, la sicurezza, ma rischia molto sia durante il viaggio sia durante il successivo percorso di integrazione”.
Si producono più commedie o più drammi?
“Una quantità enorme di entrambi. Quanto a incassi si impone la commedia; il dramma vive più che altro nei festival”.
Registi non migranti che si occupano di migrazioni?
“Ne cito due per tutti: Emanuele Crialese autore di Nuovo mondo e Terraferma, lo svedese Lasse Halstrom, autore di The hundred Foot Journey (La passeggiata dei cento passi, una splendida commedia, in Italia proposta con l’orrendo titolo “Amore, cucina e curry“). Racconta di una famiglia di ristoratori indiani che in un paesino del sud della Francia allestisce una piccola locanda, per combinazione proprio vicina a un famoso ristorante esclusivo; la arcigna proprietaria in un primo tempo cerca di isolarli e ostacolarli in ogni modo, poi finisce per assumere quale chef il figlio minore. Nuovo Mondo è un racconto sontuoso drammatico quasi epico sui migranti italiani all’inizio del secolo scorso: il viaggio in transatlantico fino a New York, l’accoglienza tremenda, la necessità di accettare la nuova sistemazione con la consapevolezza di intimamente rifiutarla (“Sono contenta di essere scartata perché io non appartengo a questo mondo. Andate avanti voi, ma io torno al mio”, dice a un certo punto la madre, cui è stato rifiutato l’ingresso). Terraferma, invece, sempre con lo stile ricorrente in Crialese del “dramma asciutto”, narra di un giovane lampedusano e della sua famiglia che accolgono e adottano una ragazza madre, una profuga, della quale nessuno si vuole occupare e della quale nessuno sa nulla”.
Leggi anche i precedenti articoli sulle migrazioni:
Dove stiamo andando? A farcene una ragione: niente sarà più come prima
Dove stiamo andando? A lavorare insieme
Dove stiamo andando? Verso una società plurale
(*) In questo articolo, come nei precedenti e nei prossimi, il termine migrante è usato in senso lato e letterale: indica perciò chiunque scelga di andarsene perché a una morte certa in patria preferisce una possibilità di sopravvivenza incerta all’estero
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