Focus Young arab choreographers è un progetto che attraverserà la nostra penisola sino a ottobre con l’obiettivo di facilitare la mobilità e il dialogo interculturale tra gli artisti arabi e le realtà del territorio italiano attraverso incontri, sessioni di lavoro e serate di spettacolo.
Esso coinvolge undici strutture da anni impegnate nel dare pensiero e visibilità alle molteplici pratiche poetiche della danza contemporanea.
Dopo il primo spettacolo tenuto a Torino, abbiamo raggiunto telefonicamente Gerarda Ventura, direttrice artistica di Anghiari Dance Hub e una delle ideatrici del progetto.
Com’è stata la prima risposta del pubblico italiano?
Direi estremamente positiva. Oltre alle presenze, si è avuto un bel riscontro anche nel dibattito che ha seguito la performance. Credo che il pubblico abbia apprezzato e apprezzerà. Sono lavori molto intensi, dove gli autori partono da un pensiero profondo, magari intimistico, legato anche alla condizione dell’artista nel mondo arabo. Approfondiscono i loro linguaggi e lavorano da soli non solo perché hanno bisogno di individuare una linea estetica propria, ma anche perché economicamente non potrebbero fare altrimenti. La cosa che più si apprezza e percepisce in questi artisti è proprio il fatto che abbiano la necessità di fare arte e di esprimersi attraverso la danza.
Come è nata l’idea di proporre in giro per l’Italia questo progetto?
Da circa vent’anni mi occupo di promuovere progetti che riguardano il Mediterraneo. Nel 2000 abbiamo costituito DBM (Dance Bassin Méditerranée), una rete euro-mediterranea che mi ha permesso di entrare in contatto con la maggior parte dei coreografi contemporanei di vari Paesi arabi e di fare progetti con loro. La rete, poi, si è chiusa. Con alcuni colleghi italiani e arabi abbiamo, però, continuato ad avere degli scambi. Un’occasione è stata ad aprile dello scorso anno al festival di danza contemporanea che organizza a Beirut Omar Rajeh, uno dei coreografi che avevamo sostenuto come DBM nei primi anni 2000. Insieme ad altri colleghi italiani andammo quindi a vedere questi spettacoli: una piccola piattaforma dedicata ai giovani coreografi arabi. Per la prima volta eravamo in sette o otto realtà italiane, contro una massiccia presenza di altre realtà europee che da anni frequentano questo tipo di iniziative. Con noi c’era anche l’attuale direttrice dell’Accademia Nazionale di Danza. Dopo la visione di questi spettacoli e dopo aver conosciuto i giovani coreografi ci venne l’idea di invitarli per una sorta di tournée in Italia nelle nostre varie strutture.
Portare questi spettacoli in Italia è anche un modo per aiutare artisti che altrimenti non avrebbero la possibilità di farsi conoscere. A parte la Tunisia, che da poco ha emanato una sorta di Statuto dell’artista, negli altri Paesi sono tutti giovani indipendenti, che non sono legati a strutture governative e non hanno nessun tipo di aiuto. Lo stesso Omar Rajeh, per il suo festival, credo abbia solo la concessione di spazi da parte della municipalità di Beirut, non sicuramente dal Ministero della Cultura. Questi giovani non hanno nessun tipo di sostegno nei propri Paesi, lavorano e si finanziano o da soli, o vengono sostenuti dai vari istituti culturali inglesi, francesi o tedeschi.
Lei è anche la direttrice di Anghiari Dance Hub, a cui parteciperanno anche questi artisti, qual è l’anima del vostro progetto?
Anghiari Dance Hub è un centro di promozione della danza e cioè una struttura nata recentemente, nel 2015, dedicata al sostegno dei giovani coreografi italiani attraverso seminari di approfondimento su diversi temi che compongono lo spettacolo di danza contemporanea. Da noi quattro dei sei coreografi di Focus Young arab choreographers non presenteranno solo i loro lavori, ma avranno un periodo di residenza insieme a degli omologhi italiani e sotto il tutoraggio di un nostro coreografo, in modo tale che si possano avere dei momenti di scambio.
Dunque lo spettacolo è solo una piccola parte, l’importante è lo scambio…
Sono tutti artisti al di sotto dei trent’anni. La prima generazione di cui ci occupavamo come DBM (Dance Bassin Méditerranée) ha poi continuato a sviluppare la sua attività di creazione unita anche ad attività di insegnamento, di sviluppo e di sostegno dei propri concittadini artisti. Infatti Omar Rajeh ha il suo festival; in Egitto Karima Mansour ha istituito un centro di coreografia contemporanea con un programma triennale; in Marocco c’è Taufiq Izzediou che ha iniziato a realizzare un festival e dall’anno prossimo avvierà anche lui un programma di formazione. Questi coreografi, attraverso lo scambio con l’Europa e con gli Stati Uniti, hanno appreso moltissimo e hanno poi deciso di rientrare nei loro Paesi di origine per condividere la loro conoscenza con giovani attori, anche in Palestina. E’ una pratica che va avanti da tempo grazie anche alla generosità di Alain Platel, un coreografo belga molto famoso che dal 2000 ha programmi di scambio con il gruppo El Funun di Ramallah: i suoi maestri tengono seminari e lui spesso invita a lavorare nella sua compagnia giovani danzatori palestinesi.
Nel progetto Focus Young arab choreographers è stata importante la capacità di 11 strutture italiane di creare una specie di network informale per mettere in piedi questa tournée. Il nostro obiettivo è quello di poter portare artisti italiani nei festival che si svolgono nei Paesi arabi. Avendo già dovuto organizzare questa iniziativa con pochi sostegni è impensabile poter portare là artisti italiani senza l’aiuto del Ministero della Cultura o degli Affari Esteri che ci auguriamo possano in qualche modo intervenire.
In ordine di apparizione, questi gli artisti e i progetti che saranno presentati all’interno dei festival:
Guy Nader (Libano) in Time Takes The Time Time Takes (TTTTTT): un progetto che nasce dall’ammirazione per il ritmo e la musicalità creati dai movimenti, basandosi sul concetto di tempo-ripetizione;
Hamdi Dridi (Tunisia) in Tu Meur (S) De Terre: una danza fisica dei ricordi che ricostruisce la figura del padre imbianchino nel suo luogo di lavoro, un duetto sinfonico in cui il dolore della malattia si trasforma in una poesia incantata;
Bassam Abou Diab (Libano) in Under the flesh: uno studio sulla relazione tra le culture, il corpo, la morte e i rituali nato dall’aver vissuto la guerra, prima e dopo, ed essere stato obbligato, nella devastazione di corpo e spirito, ad utilizzare un enorme numero di strategie per sopravvivere;
Jadd Tank (Libano) in Liberté toujours: una performance giocata sulla ricerca febbrile della libertà in tutti i suoi aspetti, segnata da un inseguimento senza fine, come fosse un circolo al contempo grottesco e sgargiante;
Mounir Saeed (Egitto) in What about Dante; un lavoro ispirato all’Inferno della Divina Commedia di Dante, miscelato con lo spiritualismo del Sufismo e la musicalità nata dall’incrocio con inni cristiani e canti orientali, alla ricerca di una fusione tra la spiritualità delle culture;
Sharaf Dar Zaid (Palestina) in To be…: una performance basata sul conflitto tra l’essere ciecamente legati alle tradizioni e l’essere liberamente isolato dalla società, nella quale non si propone una soluzione, ma una ricerca tra i due estremi, nel tentativo di trovare un equilibrio per essere nel luogo nel quale si deve e si ama essere.