“Il naso della Sfinge”, edito da Blonk, racconta una storia che c’è, o forse c’è stata, sospesa tra verità e sogno.
L’autore dipinge un ritratto famigliare e storico, un affresco di un tempo che fu, ma ancora così attuale. Volti, suoni, culture e religioni raccontati con ironia dal fotoreporter Roberto Radimir, che abbiamo raggiunto nel suo tour di presentazione in giro per l’Italia.
Come nasce questo libro?
Facevo parte di un collettivo di autori che si chiamava “diecimila me” con cui avevo scritto diverse cose. Quando il collettivo si è sciolto mi mancava la scrittura e quindi ho pensato di farlo anche da solo. Il motivo principale credo però sia un altro: sono figlio di “italiani d’Egitto” e questo mi ha sempre affascinato. Avevo letto molti libri sull’argomento (cito tra tutti Fisher con il “Chilometro d’oro”), però nessuno aveva mai scritto un libro umoristico. Siccome scrivere versi umoristici è la mia specialità, allora l’ho fatto. Non sempre sono riuscito nel mio intento. A volte il mio libro fa anche commuovere, ma era inevitabile parlando di una famiglia che abbandona quella che considera la sua casa, la sua patria.
Che Egitto era o è quello che ci racconti nel tuo libro?
Sicuramente un Egitto ben diverso da quello turistico o faraonico. Un Egitto che diventa un mondo, cosmopolita, contraddittorio, pericoloso, spietato e dolce.
Esiste ancora questo mondo?
Sino a poco prima dell’ultima Rivoluzione, la così detta “Primavera araba”, dell’elezione dei Fratelli musulmani e di quello che chiamano colpo di Stato – ma che in realtà, secondo me, è stato fortemente voluto e acclamato dal popolo egiziano – credo che esistesse ancora. Non era proprio come nel periodo che io racconto, ma qualcosa di simile. Non dimentichiamoci, però, che non era tutto rose e fiori, era sì una società cosmopolita, ma anche un protettorato britannico e prima ancora c’erano stati i francesi. Era sempre terra di conquista e come tale era trattata. Gli stranieri che vivevano lì lo facevano pacificamente, ma gli egiziani erano trattati come cittadini di serie B.
Il tuo libro è una specie di album fotografico da sfogliare avanti e indietro ammirando istantanee che ritraggono vite ricche di tenerezza e intensità. Tu sei un fotografo, era tua intenzione “fotografare” anche con le parole?
Era proprio questa la mia intenzione. Nel 2000 ero in Egitto e feci una mostra fotografica al Consolato italiano al Cairo che si chiamava “Personale”: andavo a ripercorrere i luoghi dove la mia famiglia ha vissuto o mi ha lasciato un ricordo. Sentivo, però, di non aver finito il lavoro, c’erano altri ricordi che non potevo documentare. Nella “Camera chiara” di Roland Barthes si introduce il concetto di campo cieco. Il campo cieco è tutto ciò che nella fotografia non si vede; nel cinema, quando una porta si apre, sappiamo da dove viene il protagonista e dove va. Nella fotografia, ciò che è rappresentato è fisso, ma non si vede tutto ciò che c’è intorno. Una persona che cammina, per esempio, non sappiamo dove stia andando né da dove venga e non ne conosciamo la storia. E’ qui che si è inserita la scrittura, ho pensato di descrivere il campo cieco delle mie fotografie e di quei ricordi. In tutti i racconti presenti nel libro c’è qualcosa di vero. Lo stesso titolo del libro “Il naso della Sfinge” non è soltanto la frase che dice uno dei protagonisti, ma è anche il fatto che il naso della Sfinge è esistito, anche se nessuno lo ha mai visto.