Paolo Branca e iI Mediterraneo in subbuglio

L’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) sta organizzando un ciclo di incontri dal titolo Il Mediterraneo in subbuglio. Abbiamo seguito per voi la prima tavola rotonda: Quale Islam? La battaglia per la leadership,  intervistando uno dei relatori, il Professore Paolo Branca, ricercatore in islamistica presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Come è andato il dibattito?
E’ stato un successo sia per la partecipazione del pubblico, sia per il valore delle relazioni.

Quali sono state le domande più ricorrenti. Cosa vuole sapere la gente?
Io credo che la gente si stia domandando se c’è qualcosa di veramente nuovo nel panorama del mondo arabo – e anche islamico – o se si stanno proponendo problemi già visti, come quelli accaduti nei giorni scorsi. E’ troppo presto per dire che queste primavere siano già sfociate in un autunno o addirittura in un inverno. Ci sono dei cambiamenti interessanti in questi Paesi, ma siamo ancora in fase di transizione. Fare una valutazione finale non è ancora possibile.

Una sua breve riflessione su quello che sta accadendo dall’altra parte del Mediterraneo: Libia, Egitto, Tunisia….
Ogni Paese ha una situazione diversa e particolare. E’ già un fatto che dittatori e regimi autoritari che erano in carica da decenni siano stati abbattuti. Una cosa che nessuno si aspettava. Tutti credevano che ormai il mondo arabo fosse destinato ad un eterno sonno. E’ una situazione positiva, da cui penso non si tornerà indietro, anche perché molte persone – soprattutto i giovani – hanno cominciato a far sentire la loro voce rivendicando: libertà, dignità, sviluppo. Certamente ogni Paese ha una situazione diversa e anche complessa per alcuni fattori. Ad esempio la Libia, una terra divisa, ancora tribale, dove la Cirenaica, che ha come capitale Bengasi, non ha mai sopportato di stare sotto Tripoli; quindi c’è il pericolo di una spaccatura. La Libia, però, noi abbiamo visto, è stata subito soccorsa dai Paesi stranieri, perché è un luogo strategico, soprattutto per il petrolio. In altri casi, come la Siria, un intervento internazionale è molto più difficile. Per quanto riguarda l’Egitto, sono andati al potere “finalmente” i Fratelli Musulmani, che esistono dal 1928 e sono da molto tempo la principale forza di opposizione ai vari regimi che si sono succeduti. Questo è un fatto che può essere importante, perché l’esercito, che in pratica decideva ogni cosa in Egitto dai tempi di Nasser (quindi stiamo parlando di 60 anni di storia. E non solo di Mubarak, ma prima di lui di Nasser e Sadat), sta cominciando a vedere in discussione il suo ruolo. Vedremo se l’Egitto riuscirà a darsi una Costituzione nuova e se nuove forze politiche – o anche non nuove, come i Fratelli Musulmani -, messe alla prova di dover governare un Paese sapranno farlo e non ricadranno magari in posizioni massimaliste ed estremistiche.

Ritorniamo su un punto che lei ha prima accennato: c’è chi dice che dopo la “Primavera araba” bisogna aspettarsi un “Inverno islamico”, inteso come escalation del fanatismo. E’ d’accordo?
Come dicevo, anche se chi ha vinto le elezioni (come in Egitto) sono formazioni islamiste, non c’è da stupirsene. Da decenni erano la forza di opposizione più forte e più radicata nel territorio. I giovani blogger e le nuove forze politiche non potevano raccogliere un consenso così vasto quanto quello dei movimenti antichi, che si occupano e si sono occupati anche dei poveri, dei malati nelle zone dove il governo non è presente. Questi movimenti, comunque, nel tempo hanno fatto un percorso. Ad esempio Ghannushi, leader del partito Ennahdha, che ha vinto in Tunisia. Già nel suo esilio londinese scriveva delle cose interessanti e nuove rispetto all’ideologia tradizionale dei movimenti islamisti degli anni ’60 e ’70.  E lo stesso si può dire per i Fratelli Musulmani. Ci sono però anche i salafiti, che non sono sicuramente morbidi. Alcune domande della mia relazione all’Ispi sono state dedicate a questo capitolo nebuloso, inquietante, presente e minaccioso in alcuni Paesi.

Questi Paesi vanno verso una chiusura radicale con l’Occidente?
Io credo che non convenga loro. Prendiamo l’Egitto. E’ un Paese di 80milioni di abitanti, e, se continua così, tra trent’anni ne avrà il doppio. Senza aiuti internazionali non può sopravvivere. Si trova in un punto molto delicato: al confine con Israele, c’è il Canale di Suez … prendere una linea dura come quella dei talebani e isolarsi, per l’Egitto è impensabile. Così come non vedo un futuro talebano per gli altri Paesi della “Primavera araba”. Ho paura che i nostri mass-media insistano su alcuni stereotipi che non ci fanno capire esattamente la situazione di ciascun Paese.

Quale ruolo dovrebbe dunque avere un giornalista in questa fase delicata post “rivoluzione araba”?
Dovrebbe dare spazio a tutte le voci. Ad esempio, qui a Milano – tanto per rimanere in un ambito che conosco personalmente – , nelle moschee durante gli ultimi venerdì sono state fatte delle prediche in cui si diceva che è molto più offensivo e grave per l’Islam il massacro che sta succedendo in Siria rispetto ai cento libri contro il Profeta. Le pagine dei giornali e dei notiziari, invece, sono conquistate solo da quelli che attaccano le ambasciate, bruciano le bandiere americane o cose del genere. I musulmani sono 1 miliardo e mezzo e non sono tutti uguali. Credo anche che i giornalisti dovrebbero avere una percezione storica più profonda dei fenomeni. Per esempio in Egitto, adesso che sono al governo i Fratelli Musulmani, si sono scatenati i salafiti, i loro dissidenti estremisti. Chi li paga? Chi li sostiene? Perché c’è questa spaccatura all’interno del fronte islamista? Dobbiamo ricordare che un Egitto molto forte non è mai piaciuto ai Paesi della penisola araba dai tempi di Mohammed Ali e di Nasser. Quindi la geopolitica nelle sue linee profonde continua ad influenzare. Non c’entra il fatto che siano tutti musulmani. Hanno anche degli interessi molto concreti per cui se uno è sciita o è un concorrente, l’altro lo combatte per i suoi interessi. La religione può essere soltanto un pretesto.

Volevo concludere l’intervista con una sua riflessione sui giovani dei Paesi arabi. Com’è la situazione attuale? Quali prospettive hanno oggi e potranno avere nel tempo?
La situazione è terribile ed è persino peggiorata. Ovviamente tanti mesi di proteste hanno allontanato i turisti. C’è meno controllo del territorio da parte della polizia e naturalmente la disoccupazione è aumentata. I giovani sono in questi paesi il 40-50% della popolazione. Senza un futuro per queste masse di ragazzi nessuno potrà star tranquillo. Parliamo dell’Egitto: se tra qualche decennio avrà una popolazione di 150 milioni di persone, non ci sarà sicurezza, né per Israele, né per le masse di migranti che inevitabilmente spingeranno verso l’Occidente e che diventeranno ingestibili. Quindi il tema dei diritti va sempre coniugato con quello dei profitti. Uno sviluppo economico di questi Paesi è auspicabile, come è successo in Italia nel dopoguerra. Una buona Costituzione e il boom economico degli anni ’60 ci hanno aiutato a voltare pagina.

Che ruolo potrebbe avere l’Italia in Egitto, tra vecchi e nuovi rapporti commerciali. E’ possibile intravedere un futuro di nuove opportunità lavorative per i giovani egiziani?
Noi siamo già partner commerciale dell’Egitto e di altri Paesi del Nord Africa, del Medio Oriente, così come della Turchia. Il guaio è che queste cose talvolta non vengono gestite con abbastanza lungimiranza. In Egitto conosco moltissimi ragazzi che studiano alla Scuola Don Bosco dei Salesiani o imparano l’italiano all’università e sono perfettamente italofoni. Nonostante ciò, non riescono ad avere un visto per l’Italia. Non mi pare che ci sia nessuna politica che voglia favorire i giovani egiziani che hanno scelto di imparare la nostra lingua per venire a lavorare nel nostro Paese. Ci prendiamo quelli che sbarcano in modo clandestino. Quindi il fatto di pianificare con un po’ più di intelligenza le entrate nel nostro Paese potrebbe essere di aiuto a tutti.

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