La notte è scesa su di noi. È da tanto che non facciamo l’amore. Non so nemmeno se sono l’unica per te. Non so dove vai quando sparisci nelle ultime sere senza vento.
Non ho voglia di guardarti. Perciò ti volto le spalle. Non so più com’è il tuo viso, non so più com’è il tono della tua voce. Per questo non ti parlo, non ne ho voglia. Ma stasera sei tornato da me.
Sorridi. Canticchi in cucina. Reciti a voce bassa i versi di Mahmoud che ci hanno fatto innamorare: “Con la coppa incastonata d’azzurro aspettala vicino alla fontana della sera e ai fiori di caprifoglio/aspettala con la pazienza del cavallo sellato/aspettala con il fuoco dell’incenso femminile dappertutto/aspettala con il profumo maschile di sandalo sui dorsi dei cavalli/aspettala”.
Ma sono io che aspetto te, ti dico, che ti aspetto da giorni, senza spazientirmi. E tu sorridi, leone che riposa prima del pasto. Non sei spazientito nemmeno tu, dalla mia ritrosia.
Ti guardo, adesso. Aziza ti guarda, re Shahriyàr tu guardami. E aspetti che io mi sieda, rilassata come un giardino in fiore. E la mia attesa è nel tocco, nella distanza tra il collo e la nuca. E tu aspetti che io mi scopra le gambe, che sollevi il vestito.
“Accarezza lentamente la mia mano quando poggia la coppa sul marmo e parlale come il flauto alla corda spaventata del violino”. Eccomi ancora a te, eccomi nonostante tutto. Le parole muoiono in gola. Il piacere mi ferisce, si ripete. Ti parlo piano: “Leviga la sua notte anello dopo anello”. Ancora e ancora. Re Shahriyàr, hai imposto il collare alla tua colomba. Prendila, “portala dolcemente alla tua morte desiderata”. Lenta, crudele. Uccidila dentro il suo volo. “…e aspettala”. Aspettami.
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