Ph. Hamid Roshaan – Unsplash
ISLAMABAD – Archeologia è impegno intellettuale ed emotivo, resistenza fisica, intuizione, studio, ipotesi, verifiche.
“Scavare è come un libro: togliere uno strato equivale a girare una pagina e passare a quella successiva”,
dice il professor Luca Maria Olivieri. Dal 2013 dirige la campagna di scavi nella valle dello Swat, nel Pakistan settentrionale; all’Università Ca’ Foscari di Venezia è titolare della (prima) cattedra europea in Archeologia e Storia dell’Arte del Gandhara.
Il nome di Olivieri divenne famoso anche al grande pubblico per il restauro, ultimato nel 2012, del famoso Buddha di Jahanabad, scultura rupestre alta sei metri, risalente al Vll /VIII secolo e sopravvissuta indenne fino al 2007, quando una carica di esplosivo posto dai Talebani per farla esplodere la danneggiò gravemente.
Nel nord del Pakistan, in quella valle dello Swat tradizionalmente fiorente per coltivazioni e trasporti, Alessandro Magno giunse con i suoi eserciti, intorno al 327 a. C, proveniente da quello che oggi è l’Iran; si avviò allora una contaminazione fertile e felice fra elementi ellenistici, iranici e indiani che avrebbe vivificato i tre secoli successivi – l’era “indo-greca”, appunto – destinati a concludersi con l’invasione degli Indi nel 10 d.C.
All’arrivo di Alessandro, gli abitanti di Massaga, Ora e Bazira (centri fortificati ricchi, importanti) si rifugiarono sul monte Aornos (oggi Ilam), luogo sacro da sempre: per i Pashtun la vetta è la cima degli yogin (asceti); per gli Hindu il trono di Rama (la più importante divinità hindù); per la tradizione zoroastriana sede dello scontro tra un eroe armato di clava e un mostro primordiale. Della trentina almeno di sovrani che nei successivi tre secoli si avvicendarono, sovente in lotta fra loro, il più noto è Menandro (155 a.C. – 130 a.C.), in lingua pali Milinda, tra i primi occidentali a convertirsi al buddhismo, come racconta il Milindapañha (“Le domande di Milinda”), testo probabilmente del II secolo a.C., conservato in lingua pali e in cinese. Sempre accompagnato da 500 soldati ionici (cioè greci) e dai consiglieri Demetrio e Antioco, il re incontra e interroga il monaco Nagasena che utilizzando un linguaggio molto semplice, con esempi tratti anche dalla vita quotidiana, gli spiega i principi base della filosofia buddista, compresi i più complessi come la non esistenza dell’anima, la natura del sé permanente, il karma, il nirvana, le peculiarità per raggiungere l’illuminazione e quelle che invece legano al ciclo delle rinascite.
Al regno di Menandro risalgono le prime monete con la raffigurazione di Atena Aikidemos (Salvatrice del popolo), motivo che sarà ampiamente ripreso dai successori. Menandro stesso indossa un abito con due file di pieghe geometriche, stile tipicamente ellenico, regge con la destra un rametto di edera (simbolo di Dioniso) e reca inciso sulla spada il simbolo buddhista dei tre gioielli, il Triratna. Al pari dell’Apollo del Belvedere (330 a.C), Buddha viene sovente raffigurato con i capelli ricci stilizzati con un nodo in cima alla testa. Sempre più numerosi gli edifici decorati di capitelli indo-corinzi, e relative volute decorative. Tra le mani dei putti spuntano ghirlande che richiamano direttamente la Grecia, ma le cavigliere sono tipiche indiane. Da simbolo greco della vittoria intanto, la corona portata da coppie di amorini alati diventa anche testimonianza della regalità del Buddha.
(segue: DoveStaiamoAndando: sempre in Pakistan, a contaminarci)