SIRIA/ Un rebus mediorientale

LA MIA VERITÀ: Una cosa è definitivamente certa. Quando parlate di rivolte nel mondo arabo, specie in contesti con poche chiarezze e verifiche da parte degli informatori professionisti, non usate la parola “lotta per la democrazia”. Chi lotta, in Siria, in Libia, in Egitto e altrove, la chiama semplicemente “libertà”.

Entro la fine dell’anno ci saranno nuove elezioni parlamentari: la presidenza siriana apre al multipartitismo. Una notizia che ha fatto tirare un sospiro di sollievo alla comunità internazionale ma che non cancella la crudeltà con cui il governo del partito unico Ba’ath sta sopprimendo le rivolte: l’Onu parla di 1700 persone uccise da febbraio a oggi, di centinaia di scomparsi, di migliaia di feriti e arrestati, a un ritmo di 300 al giorno, secondo l’attivista siriano per diritti umani Mustafa Osso.

Le associazioni in difesa dei diritti umani non possono stare in silenzio e sono riuscite ad avere un peso nella presa di distanza dal regime, da parte dei Paesi stranieri, occidentali quanto orientali: Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Germania, Italia e tutto il Consiglio di cooperazione del Golfo – che riunisce Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein – condannano le violenze all’unanimità.

In questo stato di cose – molto vicino alla guerra civile, dove a farne le spese è soprattutto una delle etnie religiose, quella musulmana sunnita, non al potere, concentrata soprattutto nelle città di Homs, Hama e Deir ez-Zor, attualmente “ribelli”- si parla poco dei profughi. Eppure, dopo l’operazione “antiterrorismo” a Jisr al-Shughour, a metà giugno, e l’ingresso delle truppe governative in altre città del Nord del Paese, in particolare a Maarat al-Numan e Khan Sheikhun, i civili fuggiti in Turchia sono almeno 10mila.

Sono ammassati al confine in attesa di venire ammessi a poco a poco nei campi profughi oltre frontiera e raccontano di operazioni militari da “terra bruciata”. Alcuni disertori confermano di essere stati costretti a commettere atrocità contro i civili. L’ultimo, l’ufficiale defezionista Ahmed Khalef, in un’intervista pubblicata venerdì scorso dal quotidiano pan-arabo Asharq al-Awsat, ha rivelato: «Io e altri ufficiali abbiamo ricevuto ordini dai nostri comandanti di condurre un’operazione di genocidio a Dara’a e ci è stato detto di non risparmiare nemmeno le vite di donne e bambini».

«I soldati sono arrivati con i carri armati e hanno posizionato i cecchini – racconta Abu Nuuar, un profugo proveniente da un villaggio nei pressi di Khan Sheikhun -. Hanno iniziato a sparare cannonate e fucilate contro chiunque capitasse a tiro. Siamo scappati con i miei bambini, senza niente».

Fabio Torretta è un volontario della Croce Rossa Italiana impegnato nei campi di Croce Rossa Internazionale e Mezzaluna Rossa al confine tra Siria e Turchia: «Si stima che i profughi possano essere perfino 22 mila, di cui 12 mila già accolti in cinque campi. Un sesto campo, con 800 tende, è stato allestito meno di un mese fa per dare accoglienza alla popolazione proveniente dai dintorni di Aleppo. Forniamo cibo e assistenza sanitaria al confine». Ci sono ancora più di 1500 persone che premono per entrare in Turchia. «Contiamo di arrivare a una capacità di accoglienza di 15mila unità ma non è così facile: bisogna setacciare quotidianamente il confine, considerato che in circa due chilometri di percorso potrebbero essere allogate già 10mila persone». I volontari della Croce Rossa distribuiscono fisicamente cibo e pasti lungo i due chilometri di confine. Ma quali sono le condizioni in cui versano i profughi, al loro arrivo? Torretta: «Direi buone, anche se molti sono in stato di choc per essere scampati ai carri armati e alle milizie del governo».

Secondo il vice sottosegretario agli Esteri turco, Halit Cevik, è difficile fornire una stima attendibile su quanti siriani chiederanno asilo in questi mesi. Fino a 15 giorni fa, operazioni militari erano in corso anche nelle città e nei villaggi a ridosso del confine turco, in particolare nella zona di Janudiyeh. Adesso tutto tace, almeno attraverso i canali ufficiali di informazione. Ma chi può dirlo, chi può sapere cosa succede effettivamente laggiù, dove nessun reporter straniero può entrare?

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