Laggiù vivono uno scozzese, un olandese, due italiani, due inglesi e due americani…Se pensate che sia l’incipit di una storiella divertente, vi sbagliate. E’ l’inizio di un’affascinante storia di libertà ambientata in uno degli insediamenti umani più remoti al mondo: l’isola di Tristan da Cunha.
LA MIA VERITÀ – Quando un amico mi ha raccontato di Tristan da Cunha sono rimasta esterrefatta. Credo sia una lezione di vita dedicata a tutti quelli che, credendo in assoluto nel progresso, fanno precipitare nell’oblio le proprie origini e le basi della civiltà.
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Posta a 3.200 km ad ovest di Città del Capo e a sud ovest di S. Elena – con un’estensione di appena 98 km quadrati -, Tristan da Cunha è un’isola che sulla carta suscita tutt’altro che interesse. E’ inospitale e soggetta ad un clima severo. Il suo suolo è povero, sprovvisto di ricchezze e di bellezze naturali. Non esiste un aeroporto ed è difficilmente raggiungibile anche via mare. Insomma, non è di certo uno di quei paradisi terresti dei quali ci si innamora sfogliando i cataloghi delle agenzie di viaggio.
Ma è proprio questo naturale isolamento a rendere l’isola e i suoi abitanti speciali. Sì, perché a Tristan da Cunha qualcuno, in effetti, vive. Glass lo scozzese, Green l’olandese, i liguri Lavarello e Repetto, gli inglesi Swain e Patterson e gli americani Hagan e Rogers fondarono nel 1827 una piccola comunità di 280 persone. Gli abitanti lavoravano duramente: coltivavano a mano patate, pescavano e allevavano montoni. La loro peculiarità, però, stava nella loro volontà di vivere a Tristan da Cunha e non altrove. Nessuno, infatti, era condannato a restare sull’isola.
Per difendere questa loro scelta lottarono con fermezza. Nel 1961 un’eruzione devastò Tristan da Cunha e l’amministrazione dei territori britannici d’oltremare, di cui l’isola fa parte, decise di far evacuare tutta la popolazione. Gli abitanti vennero portati in Inghilterra e le autorità cercarono di offrire loro una vita nuova.
Per due anni la piccola comunità si trovò catapultata nel XX secolo. Scoprì l’automobile, la bicicletta, le ferrovie, la radio e tutte le ricchezze dell’industrializzazione. Non solo, si dovette scontrare anche con le regole della vita collettiva: la polizia, le tasse, le ineguaglianze di reddito, di educazione, di patrimonio.
Fu difficile per gli isolani accettare questo stravolgimento. Dal 1827 erano abituati a farsi regolamentare da un’unica forma costituzionale, breve quanto semplice: “nessuno prenderà superiorità alcuna su un altro e ognuno sarà considerato come un eguale sotto tutti gli aspetti”. Come reagire, dunque, ad un mutamento tanto destabilizzante? Si strinsero tra loro, isolandosi nuovamente, e aspettarono. Dopo due anni, passato il pericolo del vulcano, si concertarono e obbligarono le autorità britanniche a riportarli a Tristan de Cunha.
Le meraviglie della modernità non fecero altro che rafforzare il loro unico desiderio: ritornare indietro nel tempo. Perché uomini onesti di spirito possono preferire una dignitosa povertà ad un benessere che tende a rendere schiavi.
che storia interessante…in qualche modo ora vale tanto il detto SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO!
Io ho potuto appurare la realta’ della vera felicita’, dovuta anche alla mancanza di desiderio per il progresso, le mode dell’occidente etc, nel mio viaggio in Birmania…una terra semplice, bella, con gente serena.Meno si ha , meno si desidera, si e’ felici con cio’ che la terra ci regala.
Cara ingenua Tristan da cunha……da anni mi fa tenerezza gente come quella che vive qui…….allo stato puro…
P.S.Li non c’e lo schifo che c’e in Italia……..quindi non è detto che si viva peggio che nel belpaese!!!