Tutte le donne della Libia libera


Madri di martiri manifestano in Piazza Alhurria a Bengasi, ottobre 2011. Ph. Laura Silvia Battaglia

Si chiamano Asma al-Mahjoob, Asma Eglewan, Hawa Wrfly, Hawa Eshween. E sono quattro tra le tante donne di Libia che hanno fatto la Rivoluzione. Non che se ne siano state con le mani in mano, prima. A Sirte abbiamo visto donne col fucile, a Bengasi altre pronte alla rappresentanza politica. Ma quelle che danno il senso e la misura di una solidarietà tutta femminile nel mondo arabo, sono loro, le varie Asma, Hawa, Nadja, Mouna. Tutte queste donne, anche a distanza di più di un anno dalla fine della Rivoluzione, sono sempre lì a fare il loro dovere. Ad aiutare chi chiede di essere aiutato.

 

Le prime quattro sono le fondatrici di Labiek Misrata, un’associazione no profit  che esisteva già da prima del 17 febbraio, ma che ha avuto una svolta inaspettata con la rivoluzione. La al-Mahjob ci tiene a sottolineare: «Siamo tutte laureate e professioniste. Facevamo attività di integrazione alla cultura nei quartieri di Misurata e in città, da prima. Ma appena è scoppiato tutto ci siamo dette che non potevamo stare con le mani in mano: così abbiamo iniziato a raccogliere fondi per aiutare chi aveva perso la casa, e sostegni per chi andava al fronte: 120 dinari, cibo, acqua e sigarette per chi decideva di partire». Nella sede di Labiek, due giorni prima della liberazione, si continuavano a impacchettare cesti di dolci: il contributo  più apprezzato dai combattenti al fronte delle donne di Misurata. Asma Eglewan, che si è laureata in letteratura teatrale in Canada, è appena tornata da Sirte: “I nostri uomini quando vedono i dolci fatti in casa non capiscono più niente”.

Anche nella sede di “8 marzo: donne di Misurata per la Rivoluzione”, ci si dà da fare senza sosta. C’è una cucina grandissima e dei piccoli furgoni bianchi che, fino al 23 ottobre, partivano alle due del pomeriggio per Sirte. Nei pentoloni, riso e uvetta passa, cosce di pollo e gli immancabili dolcetti fatti in casa. Nadja Dariz, misuratina di trent’anni, presidente dell’associazione, ha trasmesso l’argento vivo a queste donne, che si affannano in cucina. “Sono quasi tutte vedove o non hanno in questo momento una protezione sociale, un uomo accanto”. Come Hana che continua a sorridere: 20 anni, sordomuta, marito e padre morti al fronte. Nadja aggiunge: “Molte di loro sono traumatizzate dalla guerra o lo sono le loro figliole. Abbiamo approntato anche un sostegno psicologico. Qui, quando circolavano i cecchini a Misurata, sono successe troppe cose”.

Mouna S., una dei ragazzi di Misurata che durante la Rivoluzione hanno diffuso notizie e immagini sull’assedio e sui traumi della guerra, è l’unica che, un anno fa, accettava di testimoniare: “Nessuna parla perché ha paura di non sposarsi più. Sta di fatto che, per adesso, a parte rivolgerci alla Mezzaluna Rossa, molte ragazze non sanno cosa fare”. Nuovi programmi di intervento e aiuto, attivi da qualche mese prima della cattura e dalla morte di Muammar Gheddafi, sono stati abbondantemente ampliati da alcune Ong internazionali presenti sul territorio come Acted, Merci Corps e l’italiana Cesvi.

Associazioni che lavorano con le donne, che danno una nuova prospettiva alle donne, che si basano sul lavoro delle cooperanti volontarie, libiche e italiane. Come Melissa Zorzi di Cesvi, la Ong bergamasca che opera dal 1985 in molte zone calde del mondo (da Haiti al Pakistan). Melissa, con quel suo viso rigoroso e serio, dispone e organizza uomini e mezzi a Misurata, intorno a un progetto finanziato da Echo (l’Ufficio aiuti umanitari e Protezione civile della Commissione Europea), in partership con l’omologa francese  Acted e la statunitense Mercy Corps.

Cibo e kit igienici alle famiglie, beni di prima necessità, sostegni a chi ha visto distrutta la propria casa o che, dopo la guerra, ha dovuto tirare la cinghia più del necessario, sono solo alcune delle attività che Melissa coordina quotidianamente, in stretto e diretto contatto con i locali. Era a Misurata durante la Rivoluzione. A distanza di un anno, è tornata e non se ne pente. “Misurata è una città davvero interessante: la forza della sua popolazione, la voglia di ricominciare la sperimentiamo ogni giorno. Perché sono venuta qui? Sì, lo so, non tutte le persone che mi conoscono  hanno compreso il perché. Trovo un senso alla mia vita, non mi sembra una cosa da poco“.

Il lavoro quotidiano di Melissa e dei cooperanti di Cesvi è tutto da inventare, giorno per giorno, allora come oggi. “Non è stato facile iniziare a operare a Misurata, dove inizialmente mancavano beni base come olio, farina, latte concentrato. Senza contare l’assenza di medicinali e attrezzature. La situazione si è normalizzata strada facendo, ma c’è ancora molto, molto da fare. Soprattutto, a distanza di un anno, le condizioni di instabilità politica ci obbligano a muoverci con una certa cautela e a tenere conto di tutti gli attori presenti sul territorio”, spiega la Zorzi.

Le emergenze arrivano ogni giorno nel quartier generale della Ong: da Ebtihal, una giovane e bellissima sposa ventenne che ha subito la distruzione della sua casa con tutta la famiglia dentro (“Ci siamo salvati per miracolo, alham andidullah!”), a Abdellah Badi che, a meno di 60 primavere, dopo anni di sussidi ricevuti dallo stato per le sue condizione fisiche (è un reduce della guerra di Indipendenza del 1969), si trova senza un dinaro, malato, e una famiglia di venti persone da mantenere, compresi figlie divorziate e ripudiate e nipoti, di cui una totalmente traumatizzata dalla guerra. “Non mangia, dorme pochissimo, si spaventa a ogni rumore – rivela la madre –. Siamo andati in ospedale: ci dicono che sta bene ma nessuno sa dire cos’abbia”. La piccola Sana strabuzza gli occhi e accenna un sorriso. Sulla bocca ha una piega da adulta, una piega stonata che va in giù.

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