Le tempeste, si sa, nella vita si abbattono all’improvviso. Qualche volta perdurano senza pietà, altre volte si placano. Il più delle volte si lasciano alle spalle disastri irreparabili o difficili da superare, accettare, metabolizzare.
Quel che è certo è che non tutti gli esseri umani sappiano affrontarle allo stesso modo, complici il carattere, l’indole, le condizioni sociali, la cultura, la sensibilità.
Però c’è un però. Quando un popolo ha conosciuto o conosce i disastri della storia, è molto più fatalista e sereno nell’accettare l’abbattersi della malasorte sulle singole case, sulle famiglie, sui singoli uomini. Almeno quando la malasorte capita per cause naturali: la furia della natura, la malattia, la vecchiaia.
Se il DNA è stato geneticamente modificato dalla familiarità alla guerra, tutto il resto è sopportabile, perfino accettabile. Così mi stupisco quotidianamente nel vedere quanta fiducia abbia il mio uomo in Dio, quanti appelli di fede mi rivolga ogniqualvolta mi sembra di crollare di fronte a un disastro nazionale e
personale.
Non passa giorno che qualcuno dei miei amici non perda il lavoro, che qualche inquilino del palazzo non venga sfrattato, che un’azienda chiuda, che un’associazione perda fondi. Iniziano a scarseggiare anche le scorte di speranza. E vedo lui lì, incrollabile, il sorriso aperto, quell’aria sorniona del gatto che sa sempre come cavarsela, e la sua sicurezza ferma e assoluta: Dio c’è, non ti può abbandonare.
Mi fa pensare a mia nonna, che veniva da un’altra Italia, più semplice e povera. Un’Italia che aveva conosciuto la guerra, il sacrificio, la speranza. Che era cresciuta nella convinzione manzoniana che “Dio non toglie ai suoi figli se non per dare loro una gioia più grande”. Mentre noi ci siamo sempre definiti cattolici, ma abbiamo dimenticato che lo spirito santo è una delle tre Persone a cui appellarci e ci siamo aggrappati agli alberi delle barche Prada e Gucci per dimostrare un benessere tutto italiano.
Adesso che la terra trema, ci rivolgiamo alle edicole votive. E scene di ordinaria disperazione e speranza ci sembrano del tutto nuove. Ma ben venga la malasorte se serve a renderci migliori.
Perché , anche quando tutto crolla, anche quando stai per perdere un padre, come sta succedendo a me, qualcos’altro nasce da qualche altra parte. Bisogna solo capire, accettare, scorgere i segnali. Bisogna dare un senso a tutto questo. Perché un senso ce l’ha, anche se appare assurdo e imperscrutabile.
Come mia nonna, come mia madre, anche io dovrei imparare a dire più spesso “piaccia a Dio”. Anch’io dovrei fare compagnia al mio uomo quando mi guarda con fiducia ed esclama inshallah.