LIBANO/Militari italiani in missione: stimati, eppure sotto attacco

Il 30 maggio ad Herat in Afghanistan, il 27 nei pressi di Sidone in Libano. Sono ormai troppi gli attentati contro i nostri militari in missione. La stampa americana propone di ridurre la spesa militare e annuncia il lancio di nuove tecnologie per fare una guerra da casa, impiegando più mezzi e meno soldati. E intanto i nostri uomini e donne in divisa sono ancora lì. Meno di due anni fa sono stata h 24 – come dicono in certi ambienti – a contatto con i militari italiani nelle basi Unifil in Libano. Ho vissuto insieme a loro, toccato con mano quello che hanno fatto e avuto conferme dalle autorità locali, che hanno sempre mostrato nei loro confronti stima e fiducia. E’ quella stima e quella fiducia – che ho letto negli sguardi di molti libanesi – ad avermi colto di sorpresa allora, e a contrapporsi adesso con quanto è accaduto in questi giorni.

I nostri militari in missione in Libano sono decisamente apprezzati, eppure sono stati attaccati e colpiti. Non è facile capire tutto quello che sta dietro ad una guerra, e certo non mi azzardo ad avventurami in un’analisi che non sarei in grado di fare. Mi limiterò a raccontare ciò che ho visto: parte delle attività di ricostruzione che i militari svolgono in questo teatro operativo – e che forse molti italiani non conoscono. Metterò da parte riflessioni ideologiche, ipotesi e valutazioni di qualsiasi tipo.

Ricordo la grinta del Tenente Marianna Calò, una giovane donna di 29 anni alla sua prima missione. Quando l’ho incontrata nei pressi della Blue Line, la linea armistiziale che separa il Libano da Israele, era la prima donna al Genio Italiano responsabile delle attività di ‘sminamento’ (o più correttamente di bonifica). Il suo compito era quello di posizionare dei Blue Pillar lungo un confine immaginario (la Blue Line è infatti una linea immaginaria decisa a livello militare da entrambi gli Stati conflittuali), un’attività operativa per consolidare la pace. Quando le ho chiesto perché avesse scelto di entrare nel mondo militare, lei mi ha risposto:”E’ qualche cosa che ho sentito dentro”.

“Delle 28 nazioni Unifil presenti in Libano, l’Italia è l’unica che ci aiuta” diceva a chiare lettere il sindaco di Naqoura, Mahmoud Ali Mahadi, che ho incontrato nel suo ufficio. La città di Naqoura – che conta 12.500 abitanti, di cui 3.500 residenti e 9.000 emigrati a Beirut o all’estero -, è sotto la responsabilità delle forze Unifil dalla guerra del 2006. Gli uomini con il basco blu ogni settimana continuano ad andare a stringere la mano del sindaco, pronti a firmare nuovi progetti di ricostruzione in tutta l’area di interesse Unifil.

Mi aveva colpito il Tenente Colonnello Greco, allora responsabile delle attività di Cooperazione Civile e Militare (CIMIC) del IT NCC Naqoura – Cellula Pubblica Informazione, uno di baschi blu che aiutava la popolazione locale a ricostruire un’area distrutta dalla guerra. Si muoveva con disinvoltura negli uffici delle autorità locali. Salutava in arabo e si sedeva a fianco dei sindaci. Cauto e attento a non urtare la loro suscettibilità, discuteva di volta in volta dei progetti più urgenti.

“L’aiuto che riceviamo è ancora un po’ modesto – diceva il sindaco sorridendo – ma in realtà è molto grande per noi”. Mahmoud Ali Mahadi faceva riferimento al campo sportivo plurifunzionale della scuola – che ormai sarà stato ultimato – e al gruppo elettrogeno che generava corrente in città. Chissà se sono andati a buon fine anche gli altri interventi: un cimitero, un progetto di pesca e un purificatore dell’acqua.

Anche il frantoio della piccola municipalità cristiana Alma Ash Shaab (1400 abitanti d’estate e 800 d’inverno) e un grande parco giochi per bambini nella città di Aytaroun, dove oggi sventolano le bandiere gialle pro Hezbollah, sono il risultato di incontri e strette di mano con l’Unifil e il Contingente Italiano, che hanno dato un grande contributo per la loro realizzazione. “Questo è l’esempio di unione di sforzi: il nostro – quello dei fondi Unifil – e quello delle municipalità. Ognuno per la propria parte e la propria competenza” aveva detto il Tenente Colonnello Greco.

Anche il Capitano Giulia Aubry, riserva selezionata e Country Advisor del Generale De Cicco, che allora era il Comandante della base di Tibnin, mi aveva colto di sorpresa. Alta, mora, occhi azzurri, anfibi e divisa, seguiva le vicende politiche del Libano, studiava il tessuto umano e collaborava con chi faceva attività CIMIC (le attività di cooperazione tra militari e popolazione). L’ho conosciuta nella mensa della base, mentre mangiava con i suoi colleghi, e poi l’ho rivista che insegnava italiano nell’orfanotrofio di Tibnin, circondata da un gruppo di bambine libanesi che la adoravano. “Quando vieni in questi posti impari una cosa: tutto quello che sai a casa è sbagliato!” mi aveva detto a bassa voce sorridendo.

Ed eccoci a casa, a ritrovare queste figure anonime in divisa sulle pagine dei giornali. Sentiamo parlare di loro solo quando c’è una disgrazia: un attentato, un’esplosione, un incidente. E solo allora le loro storie e le loro vite diventano importanti. I nostri soldati sono stimati e apprezzati per ciò che fanno, eppure vengono colpiti in missione e colpiti spesso anche a casa, dalla nostra indifferenza.

 

 

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