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CINEMA/ Pasta Nera, una storia di migrazioni

Un’incursione nel documentario in bianco e nero Pasta Nera, quella di Alessandro Piva, acclamata all’ultima mostra di Venezia (sezione Controcampo), per raccontare, attraverso l’alternanza tra testimonianze dei protagonisti, filmati d’epoca dell’Istituto Luce e fotografie tratte da album personali, un storia di migrazione e di accoglienza che appartiene al passato ma che rimanda subito al presente, segnandone impietosamente la distanza.

Una vicenda straordinaria ma ancora poco conosciuta, una pagina dell’Italia dei sacrifici, di quell’Italia malnutrita sulle cui tavole c’era spazio solo per la pasta nera del titolo, ottenuta da un composto fatto di biada e crusca di grano bruciato, simbolo di un dopoguerra italiano di affamata disperazione. È il 1946 e l’Italia porta i segni profondi della guerra appena finita. Ma il fervido entusiasmo che attraversa il Paese per la nascente democrazia sembra ridarle la linfa di cui ha bisogno per risollevarsi.

Nel clima di collaborazione delle forze anti‐fasciste per ricostruire il Paese dilaniato e affamato, prende forma e vigore un’impresa epica per quei tempi: un gruppo di donne dell’Unione Donne Italiane (l’organizzazione femminile del PCI), aiutate dai comitati che si vanno formando via via in ogni città, organizza spontaneamente una piccola migrazione di massa. Dal 1947 al 1956 i “treni della felicità”, così venivano chiamati, avrebbero consentito a più di 70mila bambini – suddivisi in gruppi di cento a carrozza, ciascuno con un cartoncino con il suo nome appeso al collo – di attraversare l’Italia, chiudere per sempre con povertà e macerie e iniziare una nuova vita. Ttrentasei erano le ore necessarie per raggiungere da Roma il capoluogo lombardo.

Migliaia di famiglie di lavoratori del centro nord, soprattutto Emilia Romagna e Marche, aprirono infatti le loro case a decine di migliaia di bambini provenienti dalle zone più colpite del sud, ma anche di altre zone martoriate del Paese.
Superate le reciproche paure di atavica derivazione superstiziosa (“i comunisti mangiano i bambini o ci fanno il sapone”) e le difficoltà di comunicazione che inevitabilmente comporta il confronto tra dialetti profondamente diversi, da circoscritta e locale, l’iniziativa assume presto le dimensioni di un movimento nazionale. Esso è portavoce di una concezione della solidarietà e dell’assistenza che trovava le sue radici nei valori della Resistenza, indicando soluzioni concrete ai problemi più urgenti, intervenendo lì dove era più dilagante l’assenza delle istituzioni.

Aude Pacchione, una delle organizzatrici emiliane, ricorda: “Le cose che raccontavano questi bambini erano come una lezione di geografia per le famiglie; è stato un rapporto che ha dato, ma ha anche molto ricevuto, dal punto di vista sentimentale come da quello culturale: da dove vieni, cosa fa tuo padre, come vivete, come passate le giornate, che tipo di divertimenti vi potete permettere… Erano due mondi diversi che si incontravano. E quando due mondi si incontrano, crescono tutti e due.”

I protagonisti di questa storia, allora piccoli, ormai nonni, rievocano con i loro occhi bambini quest’incredibile esperienza, portando alla luce e alla conoscenza dei più che la ignorano, la memoria storica e un ricordo lucido di uno dei rari esempi di spontanea solidarietà tra Nord e Sud del nostro Paese (perché “non esiste nord e sud, esiste l’Italia”). Come sottolineano le parole della battagliera ed ex-parlamentare napoletana Luciana Viviani in una delle interviste presenti nel documentario di Piva: “Questo è un Paese che ogni tanto ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime. Perché noi ci diciamo tutto quello che di male facciamo, ma ci diciamo poco di quello che di buono facciamo.”

 

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