Il Teatro Pacta di Milano ha ospitato di recente il progetto teatrale “Herstory”, il cui nome è un gioco di parole che rimanda alla femminilizzazione del termine History. Punto di partenza sono fonti orali, dalle quali si cerca di ricostruire la partecipazione delle donne alla Rivoluzione egiziana del 2011. A metà maggio, il progetto sarà presentato anche all’Università Bicocca di Milano, presso la Facoltà di Sociologia. Attraverso diversi tipi di produzioni artistiche, si spiega come il connubio tra l’accesso alle nuove tecnologie e la liberazione dalla paura prende la forma della Rivoluzione. Abbiamo incontrato la regista, Monica Macchi.
Come è nasce questo progetto?
Nasce da un incontro. Quello che ho avuto al Cairo con Leil Zahra Mortada, regista libanese e portavoce di OpAntiSH, (Operation AntiSexual Harrasment – campagna contro le molestie sessuali). Io mi occupo di cinema e l’ho intervistato. Inizialmente era nato come progetto fotografico, poi si è trasformato in “corti” ed infine in archivio, messo a disposizione degli storici. Tornata in Italia, Leil ed io abbiamo continuato a sentirci. Ho scritto un pezzo su Herstory per la rivista Historia Magistra. Poi, abbiamo presentato a BookCity questo lavoro, legato al recupero dell’oralità e all’uso delle nuove fonti, quindi al web. Qui è nata l’idea di trasformarlo in uno spettacolo teatrale, con spezzoni di film e letture.
In questo spettacolo cosa raccontate di nuovo sulle donne egiziane e sulla “primavera araba”?
L’idea è partita dal titolo in arabo del film di Leil Zahra Mortada “Parole di donne dalla rivoluzione egiziana”. Alla luce dei successivi avvenimenti, ci siamo chiesti se questa effettivamente sia stata una “Rivoluzione”. Dall’intervista al regista e dalle parole delle donne, emerge che a livello politico sicuramente non è stata una rivoluzione, perché quelli che erano gli slogan della Rivoluzione – pane e dunque la questione economica, libertà, giustizia sociale, e dignità – non sono stati raggiunti. Altri, come “Il popolo vuole”, sono stati assolutamente cancellati. Ma “Rivoluzione” non è solo abbattere un regime politico; è anche, e soprattutto, un cambiamento nelle relazioni sociali. Ognuna di queste donne racconta ciò che è stata per lei la Rivoluzione. Per alcune, è stata non sentirsi più dire: “sei cristiana o musulmana?” , quindi tocca il tema dell’identità. Per Nadiha, una ragazza con il niqab, è stato poter urlare la parola laicità e chiedere di separare la religione dalla politica. Per altre donne è stato, invece, un cambiamento nelle relazioni sia tra le donne, sia nelle relazioni uomo-donna e anche uomo-uomo. Infatti, su uno dei murales che mostro durante lo spettacolo, ci sono due uomini che si baciano con la scritta “l’omofobia non è rivoluzionaria”. In un Paese musulmano questa è assolutamente una svolta sociale e antropologica.
Se fossero state solo le donne le uniche protagoniste della “primavera araba”, cosa sarebbe cambiato?
Sarebbe stata una Rivoluzione partita veramente dal basso. Durante il governo dei Fratelli Musulmani c’è stato di nuovo il tentativo di passare ancora sul corpo e sulla volontà delle donne, dimenticando che sono loro a mandare avanti la famiglia. Con un’economia informale molto spesso l’economia familiare è basata sul lavoro delle donne e questo le rende molto più pratiche e concrete. Un video molto bello di una donna è quello che dice “per me Rivoluzione è poter permettere ai miei figli di studiare. Noi popolo abbiamo capito che c’è stato un cambiamento, l’èlite e gli intellettuali no”. Credo che l’apporto delle donne è stato proprio questo: una grande concretezza e pragmaticità. Lo spettacolo lo abbiamo dedicato ad una mamma: Ummgaber è una donna semianalfabeta che era scesa in piazza per il figlio e racconta come abbia scelto di spendere tutto ciò che aveva per il suo ragazzo chiuso in carcere e non, invece, per curarsi di una grave malattia che l’ha poi portata alla morte. Le altre protagoniste continuano ad occuparsi di questioni sociali come la lotta per le molestie sessuali o l’aiuto alle vittime di tortura. Alcune si sono impegnate anche politicamente.
Durante la domenica delle Palme l’Egitto è stato sconvolto da due terribili attentati. Hai avuto modo di parlarne con le donne protagoniste del progetto?
Ho sentito alcuni amici egiziani, che sono convinti che sia la solita strategia di sempre, del “divide et impera”. Ancora una volta vogliono dividere il popolo egiziano: donne contro uomini, musulmani contro cristiani, giovani contro vecchi. In tanti l’hanno interpretato come un ennesimo tentativo di divisione settario.