di Gianluca Lattuada
(studente di Economia dei Mercati Emergenti presso l’Università Cattolica di Milano)
Era il 12 novembre 2003 ed io frequentavo il liceo di un piccolo paese vicino a Milano.
Alle 8.40 italiane di quel giorno, un camion cisterna esplose contro una base militare italiana, provocando 140 feriti e 28 morti. Appresi la notizia dell’attentato a Nassiriya con quel fervore e patriottismo propri di ogni ragazzo che attraversa l’età adolescenziale.
L’Italia intera era scossa. Nessuno riusciva a dare una spiegazione logica all’accanimento e alla cattiveria crollate addosso a uomini inerti, mandati in missione per aiutare la popolazione civile. Rabbia e dolore si respiravano in aula, in ufficio, in strada. Nessuno era tranquillo. Nessuno, tranne uno.
Il giorno seguente si era deciso di rispettare un minuto di silenzio collettivo in onore delle vittime. Tutti vi parteciparono. Tutti, tranne uno. A quei tempi non mi era ben chiaro quale fosse il motivo di un comportamento così inconsueto da parte di quello strano, quanto stimolante, professore, che andava contro tutti e tutto. Le frasi lungo i corridoi erano di quelle che si sentono nei peggiori bar di periferia: “Il solito comunista, anzi anarchico” oppure “Sta dalla parte di quei barbari” o ancora “Bisognerebbe lanciare una bomba e fare di quelle terre un enorme spianata di asfalto, è l’unica soluzione per non avere a che fare con quelle bestie!”.
Nel 2011 l’Italia ha preso parte all’operazione Odyssey Dawn (Odissea all’alba), una missione internazionale contro Gheddafi. Tutto è stato deciso in fretta: nel giro di poche ore le basi italiane situate a sud erano a disposizione della Nato insieme ai nostri Tornado, pronti a partire per la Libia. Questa volta tutti erano d’accordo. Questa guerra era legittima.
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Dai balconi sono scomparse le bandiere arcobaleno, simbolo della pace, che avevano caratterizzato gli anni della guerra in Afghanistan e Iraq. E le parole di Ligabue, del singolo più venduto in Italia, sembrano un ricordo lontano: “C’era una volta un aeroplano, un militare americano, c’era una volta il gioco di un bambino. E voglio i nomi di chi ha mentito, di chi ha parlato di una guerra giusta, io non le lancio più le vostre sante bombe”. A dar coraggio al nostro animo guerrafondaio si è aggiunto anche il discorso del Presidente Giorgio Napolitano, che ha proclamato l’Italia rappresentante dei diritti e della libertà – di altri -, affermando che: “La sollevazione del popolo libico ha riguadagnato ad esso la libertà, dopo decenni di sofferenza e oppressione”.
Ed eccoci, caduti nuovamente in errore. Le esperienze passate non sono servite a nulla. Ciò che prima ci veniva propinato come “missione di pace”, ora si chiama “missione per la libertà”. Valori positivi, universali. La parola guerra (almeno quando la combattiamo noi) è bandita dal dizionario mediatico. Se un tempo il sovrano era libero di dichiarare guerra per motivi economici o politici, ora non può più farlo senza il consenso del popolo. Ora deve convincere tutti che quello che sta facendo è “cosa buona e giusta”. Sono i vantaggi della democrazia.
In questo modo, però, si stravolgono le parti e non si ha più coscienza di chi sia l’oppressore e chi l’oppresso. In passato era tutto più semplice: vi erano due eserciti contrapposti, un campo di battaglia, i conquistatori e i conquistati. Ora si combatte contro un nemico non ben definito, a fianco di alleati che non si conoscono, in un territorio che non si sa di chi sia. Formalmente, dunque, non siamo mai in guerra e la morte tra i nostri soldati non viene contemplata tra i possibili risvolti.
E allora mi viene in mente quel giorno di autunno di otto anni fa, quando ancora non comprendevo il vero pensiero del mio professore. Lui era uno dei pochi ad aver ancora in mente il vero significato della guerra, intrisa di crudezza, istintività e ansia, legata a doppio filo con la parola morte. Bisogna prenderne coscienza e accettare le regole del gioco: capire che dall’altra parte ci sono soldati, normali cittadini, donne e bambini che (ci) combattono, pronti ad uccidere, ma soprattutto pronti a dare la vita pur di difendere la loro terra.
Onore quindi a tutti i combattenti, nostri e nemici. Perché la morte di un connazionale non vale più della vita di uno straniero. Il mio professore e Ungaretti l’avevano capito benissimo: “Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte. Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione”. Quel giorno di novembre, dicendo no al minuto di silenzio nazionale, il professore aveva dimostrato un enorme rispetto, non solo verso i soldati morti nell’attentato, ma verso tutti i caduti di guerra.
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