Chissà come è successo, ancora me lo domando. Ma l’anniversario dell’11 settembre per noi, quest’anno, è stato qualcosa che ci ha unito, quando finora ci ha sempre diviso.
Non so come spiegarvelo, ma quando la Storia irrompe nella vita degli uomini e delle donne che la vivono (e che la subiscono) può creare disastri e far crollare ciò che negli anni hai pazientemente costruito.
Pensate che significato può avere, per noi, l’11 settembre. Io e lui. Io: la donna occidentale, figlia di uno Stato che ha contribuito a molte campagne Nato, quelle che noi chiamiamo operazioni di peacekeeping; le stesse che in qualche caso sono tali, ma che il più delle volte si chiamano con un nome più antico e brutale: guerra.
Lui, l’uomo del Medio Oriente, figlio di una terra occupata molte, troppe volte, martoriata nei secoli, che esprime la necessità di una rivendicazione pacifica, ma che non può fare a meno di plaudere al terrorista di turno, giusto per riequilibrare il conto dei morti, dall’una e dall’altra parte. Con mio grande sconcerto.
Ogni anno quella data ci dilania, ogni anno la mia compartecipazione per il dolore americano è inscindibile dalla sua rabbia per tutte le vittime civili irachene e afghane di due guerre senza senso. Quel giorno, che dai media viene portato ad esempio dello scontro di civiltà, delle crociate dall’una e dall’altra parte (Ricordate? Sia Osama bin Laden sia George W. Bush utilizzarono questa parola per spiegare le ragioni, l’uno degli attacchi terroristici dal 2001 in poi, l’altro della seconda Guerra del Golfo e dell’intervento militare in Afghanistan), per noi non hanno senso.
Noi, che giorno per giorno cerchiamo di costruire un ponte che la Storia ha distrutto. Noi, che preghiamo insieme ognuno il suo unico dio. Noi, che ci lecchiamo le ferite delle incomprensioni quotidiane delle coppie, aggravate dalle croste culturali che il mondo ci cuce addosso. Siamo noi.
Però quest’anno è successo qualcosa. Mentre il mondo si commuoveva alla vista di Ground Zero e a Il Cairo qualcun altro assaltava l’ambasciata israeliana, abbiamo rivisto la registrazione di una puntata di X-Factor, edizione australiana. Sì, sì, proprio X-Factor. Quella puntata vinta da un ragazzo mutilato, senza braccia.
https://www.youtube.com/watch?v=uuKl4QoHoJY
Un ragazzo iracheno. Rovinato per sempre dalle mine, orfano. Il fratello di lui è nelle stesse condizioni. E la sua storia ha fatto il giro del Paese. Eccolo presentarsi alla giuria di X-Factor, raccontando quanto è bella la sua mamma, una signora dai capelli rossi che decise di adottare degli orfani iracheni di guerra e che si prese cura di questi bambini, figli degli stessi genitori. I bambini sono diventati grandi e hanno una bella famiglia, adesso.
Le premesse di questa storia sono eccezionali ma ancora più bello e straniante è ascoltare questo ragazzo cantare, con quella voce netta e squillante, non più voce bianca, non ancora voce da uomo. Quando intona Imagine di John Lennon, la commissione di artisti e docenti piange di commozione. Solo lui non piange.
Si vede lontano un miglio che non vuole fare pietà a nessuno mentre mostra i suoi moncherini con naturalezza. Sorride mentre canta “imagine all the people…”. E non c’è nessuno in quella sala che non capisca il senso della guerra e della morte da questa esplosione di vita, gioia, pace, perdono.
Per noi è stato un attimo. Ci siamo guardati: piangevamo entrambi. Anche tra noi, nessuna crociata, in quel momento. Solo un bacio, l’abbraccio e nessun ricordo dell’11 settembre né dell’assedio di Falluja. Nessuno. Perché l’amore sa vincere, nonostante tutto.
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