con il contributo di Taha Al-jalal
Disinformazione, fraintendimenti, pressione demografica, paure reciproche, incomprensioni culturali, rappresentazione dei media. Il workshop su “Meeting diversity: Migration and Islam in Europe” per la conferenza internazionale Metropolis organizzata dalla Fondazione Ismu a Milano dal 3 al 7 novembre, la dice lunga su quanto ci sia da lavorare sugli stereotipi legati alla migrazione e alla differenza culturale nella coesistenza. Soprattutto in Europa, un continente con una storia antica, ma che soffre per la mancanza di spazi abitativi adeguati nelle città e per una crisi economica crescente, che si abbatte sulle classi sociali medie e spesso scoraggia la migrazione.
Il workshop si giustifica in seno alla conferenza internazionale Metropolis (cinque giorni di convegno con otto sessioni plenarie e 81 workshop), nata 18 anni fa proprio a Milano per volontà della Fondazione Ismu e della canadese Carnegie Foundation. Oggi, coinvolge organismi internazionali, istituzioni, ong proveninti da Nord America, Europa e Asia. Al Forum – il più importante a livello mondiale sull’immgrazione – hanno partecipato 740 persone (il 55% dei partecipanti proveniva dall’estero) e 200 giornalisti, oltre ai massimi esperti mondiali di fenomeni migratori come Willam L. Swing, direttore generale dell’Oim, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e Volker Turk, direttore della Protezione Internazionale UNHCR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati(sul canale della Fondazione Ismu trovate 29 interviste agli esperti che sono intervenuti).
Così, ha provato a fare il punto su questa situazione in mutamento il gruppo di studio formato da Giovanna Rossi, Donatella Bramanti, Camillo Regalia, Cristina Giuliani e Stefania Giada Meda dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; Gian Carlo Blangiardo dell’Università di Milano Bicocca; Alessio Menonna, Fondazione Ismu; Brigitte Maréchal, Università Cattolica di Louvain, Belgio; Wael Farouq, American University del Cairo, Egitto; Anja van Heelsum, Università di Amsterdam; Martino Diez, Fondazione internazionale Oasis. L’assunto da cui si è sviluppato il confronto tra studiosi è sotto gli occhi di tutti: i cambiamenti relativi alle identità culturali e religiose in aree di forte migrazione sono inevitabili e impattano sulla vita quotidiana, le relazioni sociali e le forme della trasmissione religiosa e culturale tra le generazioni successive. Molti cambiamenti sono in atto, in Europa, e rispondono a stadi differenti di evoluzione del fenomeno: l’Italia, dove la migrazione c’è sempre stata, è un Paese vissuto dalle comunità in transito come un luogo di passaggio, e solo recentemente, negli ultimi dieci anni è diventata un obiettivo migratorio come altri Paesi del Nord e Centro Europa.
Per questo, il confronto con aree come il Belgio o i Paesi Bassi, sembra particolarmente opportuno. In Italia, secondo le stime fornite da Camillo Regalia, su 4milioni di migranti registrati nel 2012, 258mila sono musulmani, provenienti in massima parte dal Nord Africa (67%). Secondo l’analisi territoriale sviluppata da Alessio Menonna di Ismu, la Lombardia e la città di Milano ci collocano nella ricerca come aree di migrazione significativa, in termini sia numerici sia qualitatitivi. In tutto la provincia di Milano, ospita attualmente 141mila migranti di cui 73mila vivono nell’hinterland e 68mila in città. Solo a Milano la maggioranza di immigrati irregolari (12.3%) sono musulmani e provenienti soprattutto dall’Egitto (31%). Il 36% sono maschi e il 22% è formato da laureati. I settori nei quali riescono a trovare lavoro sono: costruzioni, hotel e commercio. La maggior parte sono single nel Paese di migrazione e aspirano al ricongiungimento familiare.
In base a uno studio quantitativo portato avanti dal gruppo di Sociologia dell’Università Cattolica, tramite interviste a un campione di 211 partecipanti, le problematiche riscontrate nell’esperienza di migrazione partono da una progressiva accettazione psicologica della situazione in cui ci si sta radicando. Il migrante si trova teso tra due necessità: mantenere la propria identità e avere relazioni con la società allargata. Le soluzioni approntate sono diverse e differiscono a seconda dei gruppi etnici: si tratta comunque di un processo di negoziazione culturale che può svilupparsi a vari livelli.
Dalla ricerca emergono forme diverse di integrazione che, per forza di cose, si articola sugli aspetti economico, culturale, politico, sociale. In genere, vigono opposte tendenze. L’ibridizzazione e metissage riguarda soprattutto uomini e donne di seconda generazione, con capitale economico e predisposizione all’apertura culturale; altri rinforzano la loro identità culturale aderendo all’Islam tradizionale sia in termini di rispetto delle pratiche religiose sia nel supporto all’Islam politico; gli ultimi, arrivano a forme di ibridizzazione complete, senza meticciato, rifiutando la loro identità di partenza con forti scompensi sul piano dei comportamenti sociali (tra questi, ci sono migranti giovani e maschi, adulti vulnerabili, migranti da molti anni che sono rimasti soli). Il quarto stadio migratorio si raggiunge solo con le seconde generazioni, dove all’ibridizzazione necessaria si aggiunge un plusvalore culturale: possesso ottimale della lingua e desiderio di risiedere in Italia. Tipicamente in questa fase si collocano tutte le seconde generazioni e le giovani donne.
Se questo è il quadro che restituisce l’Italia, si può prevedere in controluce il futuro, dal confronto con le realtà di Francia, Belgio, Paesi Bassi. Brigitte Maréchal dell’Università Cattolica di Louvain in Belgio lo dice chiaramente: “non dobbiamo occuparci solo dei migranti, ma anche del mutamento dei comportamenti degli abitanti originari in aree migratorie”. La sua ricerca registra infatti una serie di problemi dovuti a mancanza di reciprocità e dialogo culturale o, banalmente, condivisione di spazi pubblici in forme che incoraggino la conoscenza reciproca. “Molti problemi nascono da un enorme fraintendimento che aumenta la distanza culturale”. Le cause sono molteplici: disinformazione, pressione demografica, paure reciproche, incomprensioni (ad esempio, la paura occidentale per il velo islamico vissuta come un attentato alla laicità), immaginario di rappresentazione dell’altro modificato dai media o dalle tradizioni culturali.
E dalla ricerca dell’Università di Lovanio, con 150 interviste e 60 eventi pubblici registrati, ne vien fuori una verità che può servire anche all’Italia: la società, di fronte alle realtà meticce, non dibatte davvero perché ha paura di dibattere. Piuttosto raccoglie la controversia che piace parecchio ai media mainstream e alla classe politica. Quel che a Lovanio si sta cercando di fare è incoraggiare l’innesto culturale e convincere ciascuno a non delegare allo Stato le iniziative di reciproca conoscenza ma “costruire la propria comunità” secondo regole che la comunità stessa si dà. Come dire: rivalutiamo il quartiere rispetto all’entità statale perché le leggi non bastano per fare convivere tutti nel migliore dei modi. E, soprattutto, ritorniamo cittadini.