Rifugiati siriani: una tragedia già consumata

 

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Bambina siriana rifugiata. Campo profughi di Zatari, Giordania. Ph. Laura Silvia Battaglia

Al Mafraq (Giordania) – Alla quarta volta in cui si mette piede in quel limbo dantesco che è lo Zaatari Refugee Camp di Al Mafraq, in Giordania, non può non ritornare in mente un’infografica che riduce i siriani, brutalmente, a numeri: un siriano muore ogni 12 minuti di guerra, un uomo ogni 30, una donna ogni 45, un bambino ogni 50. E continua: per il freddo ne muore uno ogni otto ore e mezza, per la fame ogni dieci.

Nella giornata annuale per ricordare i migranti – la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che si celebrerà il prossimo 19 gennaio – questi numeri non sono abbastanza. Perché alla tragedia della guerra in Siria, che ha già fatto 2 milioni di profughi, di cui, secondo Acnur e Unicef, la metà sono bambini e almeno 740mila minori con meno di undici anni di età, si aggiunge la riprovazione sociale, l’emarginazione, la consapevolezza di essere corpi estranei oltre confine, oltre ogni confine. E, nelle aree limitrofe, la certezza di essere considerati peggiori dei rifugiati palestinesi.

In Giordania, la condizione dei profughi oscilla tra due estremi: la visibilità nei campi e l’invisibilità tra le famiglie che hanno aderito al programma di accoglienza della prima ondata migratoria. Ma nessuna delle due condizioni ha vantaggi maggiori dell’altra. Il campo di Zaatari, al confine Nord, nell’area di Al Mafraq, oggi diventato la più grande metropoli di rifugiati nel Medio Oriente con più di 144mila presenze stimate a fronte di un capacità di 60mila, è fortemente mediatizzato. Nell’arco di un anno dalla nascita nel luglio 2012, sono aumentati i sistemi di cash for work per i maschi adulti, i servizi scolastici per i bambini, il numero di toilettes, la capacità di pompaggio dell’acqua. Ma i profughi ci sono e sono tanti.

Michele Servadei, deputy representative per Unicef, lo dice chiaramente: «Il 30% dei bambini di Zaatari ha un’età inferiore ai cinque anni. La necessità di fornire loro anche l’educazione scolastica è prioritaria, considerato che il lavoro minorile è diffusissimo e molti di questi bambini arrivano da simili esperienze già in Siria. In più vengono da soli, non accompagnati dai genitori: sempre sotto shock, a volte feriti». Come Abdel, che ha meno di dieci anni: viene da Daraa, come la maggior parte dei rifugiati di Zaatari, non sa dove siano finiti i suoi fratelli e non metteva in conto di tornare a scuola finché l’Unicef non ne ha piazzata una al campo. «Finora ho sempre dato una mano a portare acqua e spazzatura – dice. Per il resto mi annoio e gioco alla lotta con i miei compagni». Da gennaio scorso, per creare a Zaatari un ambiente meno violento, nei limiti del possibile, 3mila uomini adulti sono stati impiegati nel settore delle pulizie e 300 alla guida di camion per il trasporto di acqua e immondizia. Ai bambini si cerca di reinnestare la fiducia nell’altro, e favorire forme di sport non violento nel campo, come il calcio. Ma non è facile.

L’associazione italiana Un ponte per è impegnata da anni in Giordania, in collaborazione con il partner locale, la Jordan Women Union. Da poco ha concluso il progetto Community based protection for Syrian refugees in Ma’an and Zarqa with a special focus on women and girls realizzato con l’Unfpa (United Nations Population Fund), l’agenzia Onu che “custodisce” i trattati per la protezione delle vittime di violenza di genere.

Nel corso di cinque mesi un team di legali, psicologi e assistenti sociali hanno lavorato con donne siriane, palestinesi, irachene e giordane nelle città di Zarqa e Ma’an per offrire protezione sociale. E più di 700 donne sono state assistite con consulenze legali e psicologiche. Marta Triggiano prima e Alice Massari poi, sono state responsabili dei programmi di “Un ponte per” durante la crisi siriana. Confermano: “Dopo tre anni dall’inizio della crisi, l’azione sociale più importante è non farli sentire soli e accompagnarli in questo percorso difficilissimo”.


Fida Hueida
è un’educatrice. Giordana di origine palestinese è impegnata da anni nei centri affiliati alla Jordan Women Union, dove “Un ponte per” opera e dove sono stati realizzati dei corsi di alfabetizzazione per le donne, di cucina, di introduzione all’uso dei computer e della attività scolastiche e ricreative per i più piccoli: «Questi bambini sono passati dalla condizione di profughi di guerra, quando non fossero già partecipanti passivi degli scontri a fuoco, a quella di social workers. Anche quando sono riusciti a uscire dai campi e si sono inseriti in famiglie siriane trasferitesi in Giordania prima della guerra, non hanno più frequentato le scuole: piuttosto hanno fatto i commessi, i garzoni, lavori di fatica».

Il problema è l’impatto con la società giordana. I 20 centri della Jordan Women Union sparsi in tutto il Paese, affrontano l’emarginazione sociale in due modi. Fida Hueida: «Aiutando prima i bambini ad affrontare un percorso di resilienza, attraverso il disegno; immettendoli poi in un contesto di gioco e condivisione tra coetanei, non solo siriani, ma anche giordani e palestinesi». Riham A., madre di quattro figli, è abbastanza contenta di questa soluzione: «I miei figli sono vittime di bullismo perché siriani, ma da quando frequentano questi centri si sanno difendere senza arrivare alle mani».

A Camp Hussein, uno dei quartieri palestinesi di Amman (ma lo stesso servizio sociale è disponibile a Hittin, Al-Wahdat, Hosun e Baqa’a) alle pareti sono appesi i disegni dei bambini in progressione temporale: i carri armati non mancano mai, ma in compenso l’immagine della figura umana – nei primi solo un tronco senza gambe e braccia – negli ultimi lascia intravedere un viso, un vestito, un sorriso. Fatma S., però, non sorride mai. Non è dato conoscere la sua storia, ma le ragazze dopo i 12 anni di età sono quelle che hanno maggiori difficoltà di inserimento sociale: se non vivono più nei campi, si chiudono in casa, non escono, hanno paura di molestie sessuali.

Nadia Shamrouk è la responsabile della Jordan Women Union. Attiva da molti anni nella difesa di donne vittime di violenza sessuale e domestica e impegnata nelle pressioni per riformare il Codice di Famiglia giordano, dirige il primo rifugio antiviolenza del mondo arabo. Conferma: «L’ondata di rifugiati e la promiscuità delle condizioni di vita hanno favorito i casi di violenza di genere giustificati dal matrimonio. Ad ogni modo, la fascia d’età più a rischio violenze è quella delle donne fra i 18 e i 25 anni, ma le violenze occasionali vengono perpetrate in maggior numero sulle bambine di 12 anni d’età».

La preoccupazione che “quello” possa accadere proprio a lei, è visibile sul volto di Rania, ma ancora di più della madre Aisha. Vivono a Cyber City, il campo più negletto e blindato della Giordania, a Sud di Al Mafraq, nel governatorato di Irbid, non troppo distante da Zatari. È il campo meno scenico di tutto il Paese perché è dentro una ex area commerciale: non ci sono tende, tank per l’acqua o l’espurgo. Non ci  sono  giornalisti e agenzie internazionali. E gli “ospiti” sono siro-palestinesi. Vale a dire, rifugiati due volte. Il palazzo ha sei piani, ciascuno con 120 stanze. Ospita 200 famiglie, una per stanza: complessivamente 417 persone. Aisha mostra la cucina e le latrine comuni. Non nasconde la sua preoccupazione: «Viviamo in una condizione di promiscuità molto pesante. Ho paura per mia figlia e cerco di non lasciarla mai sola».

Il marito, Abu Mohammad Jihad, conta i giorni  e i nomi dei rifugiati “ospiti”. «Sono una specie di amministratore di condominio». Cammina con le stampelle ed è mutilato di un piede: «Normale amministrazione per chi arriva dalle mie parti». Daraa, Qasim, Imtan. La sua storia non è troppo diversa da quella di altri rifugiati incontrati nel vecchio campo di Ramtha o nella tendopoli di Zaatari. La rivolta, la guerra, la fuga, l’attesa. E adesso un limbo senza diritti, passaporto, identità.

 

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