EGITTO/ Elisa Pierandrei e la sua “Primavera araba” dei graffiti

E’ uscito in questi giorni l’interessante eBook di Elisa Pierandrei, giornalista e scrittrice, esperta di mondo arabo, in particolare di Egitto. Il suo libro Urban Cairo. La Primavera araba dei graffiti è un reportage sulla Rivoluzione egiziana con un approccio diverso: una raccolta di forme espressive di dissenso e una mappa interattiva di graffiti (consultabile gratuitamente).

Non solo Facebook e Twitter, dunque, ma anche voci di writer, designer, pubblicitari e artisti di strada, i veri protagonisti della comunicazione della necessità del cambiamento politico. Abbiamo incontrato Elisa Pierandrei e le abbiamo chiesto di raccontarci il suo progetto.

Da quale idea nasce questo libro e quale lo scopo?
Il progetto à nato dall’osservazione, fatta nel mio primo viaggio, di ciò che stava accadendo al Cairo durante le rivolte nel febbraio del 2011. Il fenomeno dei graffiti è scoppiato in Egitto con “ la Rivoluzione del 25 gennaio”, che è il modo in cui gli egiziani definiscono la “Primavera araba“. Prima di allora, per le strade del Cairo, non c’erano. Qualcosa si vedeva nei quartieri più occidentalizzati, come Zamalek e Heliopolis. Ma erano dei piccoli esempi del movimento iniziato nel 2007, presente anche e soprattutto ad Alessandria d’Egitto. E’ veramente esploso con la Rivoluzione, quando tutte le strade che portavano a piazza Tahrir avevano questa scritta: “Al Shaab yurid isqat an- nizam” (il popolo vuole la caduta del regime). Era qualcosa di eccezionale. Chiunque abbia viaggiato nei Paesi arabi sa che, a parte il Libano – un po’ più liberale (dove anche lì la graffiti way è un fenomeno recente) -, i graffiti in strada non si trovano. Prima della Rivoluzione, venivano immediatamente cancellati e i writer erano puniti anche con l’arresto. Queste piccole scritte, man mano che la protesta cresceva, diventavano sempre più grandi e presenti, fino a trasformarsi in veri e propri murales, con le tecniche figlie di quest’arte urbana, come lo stencil. Un esempio si trova nella Mohammed Mahmmud street, che parte da piazza Tahrir: su un lato il muro che circonda il campus dell’Università americana è interamente ricoperto da un graffito con un ritratto di Mubarak . Questi murales cambiano in continuazione, perché quella dei writer è un’arte effimera. Durante i miei viaggi, a febbraio, giugno e novembre del 2011, li ho visti mutare e diventare sempre più numerosi. Poi sono stati cancellati dalla contro-Rivoluzione e poi sono riapparsi nuovamente. Se adesso andassimo al Cairo, li troveremmo ancora diversi. L’idea è stata, quindi, quella di registrare questo momento di grande creatività, come presa di coscienza, che, superando internet, arriva a tutto il popolo. Io ho scelto di parlare nel mio libro di artisti – come i writer – e quindi della società civile egiziana. Sono loro gli attori dello sviluppo e del cambiamento.

Chi sono concretamente i writer egiziani. Qual’è la loro storia, background, età, ceto sociale?
Sono persone appartenenti a diversi ceti sociali. Molti appartengono a quello che potrebbe essere considerato il ceto medio o medio-alto; gente che è stata all’estero, che ha vissuto negli Stati Uniti o che è figlia di coppie miste. A un certo punto questo fenomeno è diventato talmente coinvolgente che i graffiti li ha realizzati anche la gente di strada.  Questo passaggio lo spiega bene la gallerista Stefania Angarano nella sua introduzione. Io ho incontrato writer di tutte le età, dai teenager ai trentenni.

Che cosa rappresentano i loro graffiti e quale messaggio vogliono portare?
C’è stata un’evoluzione anche in questo. Credo che il mio libro sia interessante perché ha in qualche modo fotografato questa crescita. Si è partiti quindi dalle scritte che riproducevano gli slogan della rivoluzione, fino a realizzare delle immagini, di solito contro il vecchio regime. Per esempio il grande murales (che ora non esiste più) che rappresentava Mubarak in piazza Tahrir, o Tantawi, l’ex-generale dell’esercito egiziano, o Amr Moussa. Quindi i volti del regime. In altri casi sono i volti dei martiri, dei ragazzi uccisi durante la Rivoluzione. Interessante sono anche quelli che rappresentano le donne della Rivoluzione: la ragazza con il reggiseno azzurro, che era stata picchiata, vestita come Wonderwoman. Un altro che mette a confronto le due donne simbolo della Rivoluzione: Alia, che aveva postato una sua foto nuda per sostenere la sua laicità, che guarda Samia Ibrahim, che dopo il suo arresto insieme con altre diciassette ragazze avevano subito il test di verginità per aver partecipato ad un sit-in a Piazza Tahrir. E pare che questa fosse una prassi normale nelle carceri egiziane, ma ora per fortuna è stata abolita. Ultimamente i graffiti sono contro i salafiti che vengono rappresentati come dei diavoli rossi.

Qual’è “l’Egitto ideale” (o il mondo ideale) per questi writer?
Sicuramente un mondo senza corruzione. Le manifestazioni in piazza Tahrir erano soprattutto contro un sistema corrotto, se vogliamo anche nella morale. Questi ragazzi vogliono migliorare la loro vita, con un sistema economico diverso, con più uguaglianza sociale e senza i meccanismi che fino ad ora sono stati propri dell’Egitto.

Parliamo di writer e quindi soprattutto di giovani. I salafiti sono in questo momento una presenza inquietante in Egitto. Pensa che possano essere un’alternativa per loro? Quanto questi ragazzi sono influenzati dai movimenti religiosi?
I ragazzi che ho incontrato io sono laici. Nessuno di loro dirà mai che è ateo, ma sicuramente vogliono che la religione non entri nella politica. Si rifanno ad un modello molto globalizzato, quindi poco legato alla religione. Attaccano ogni forma di estremismo e, come dicevo prima, rappresentano i salafiti come diavoli rossi. Quando però postano queste immagini sul web, ricevono commenti di varia natura. C’è chi li sostiene, ma anche chi li attacca. Ci sono infatti giovani che si sono fatti sedurre da questa propaganda integralista. Secondo me è una reazione ad una società estremamente corrotta: cercano nei valori della religione quello che manca nell’etica sociale.

Quando in Occidente si è appreso che era in corso la Rivoluzione araba, in tanti si sono detti: “Era ora! Finalmente il popolo potrà aver voce”. Ma è veramente così?
Nei mesi successivi alle dimissioni di Mubarak è stato così. Era un momento di grande creatività artistica e vivacità culturale, con manifestazioni promosse dalle varie gallerie che si trovano intorno a piazza Tahrir. Una di queste era infatti la Mashrabia Gallery, diretta da Stefania Angarano. Anche la stampa si è sentita più libera, tant’è che ci sono stati cambiamenti anche ai vertici dei giornali. In questo momento, però, la priorità è la questione economica, che è drammatica. La mancanza di lavoro sta portando ad una serie di scioperi in tutto il Paese. Le proteste interessano tutte le categorie di lavoratori e naturalmente il resto passa in secondo piano.

Lei è appena tornata dall’Algeria, dove ha partecipato al Fibda, Festival del fumetto di Algeri. Ci racconta che aria si respira oggi lì, in Egitto e in Nord Africa in generale?
L’Algeria che ho visto io è un Paese piuttosto (o almeno apparentemente) tranquillo. Gli algerini sono scettici e anche un po’ cinici quando si parla di “Primavera araba”. Loro hanno vissuto anni di terrorismo islamico molto duro, dal 1992 sino agli inizi del 2000, dopo le elezioni che avevano portato gli integralisti islamici a vincere ed al successivo colpo di Stato. C’è molto fermento dal punto di vista culturale. Io vengo dal Festival del fumetto che è un fenomeno relativamente nuovo, se si parla di fumetti per adulti. La cosa positiva è che finalmente questi fumetti sono pubblicati. Tutto passa però attraverso una situazione economica anche qui disastrosa, che mi hanno confermato anche i ragazzi del “Toc-Toc”, un magazine indipendente nato in Algeria prima delle proteste egiziane.

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