La fotografa Francesca Leonardi ha scelto di osservare gli eventi da lontano, perché, a volte, solo da lontano si possono cogliere certe sfumature. E’ proprio con questo approccio che è nato Revolutionary people, un libro fotografico realizzato in Egitto, tra i villaggi di El Desamy e El Saff, a due ore di auto dalla capitale. Il volume, i cui testi sono di Pamela Cioni, fa parte del progetto editoriale La Rivoluzione lontano da piazza Tahrir – prodotto dalla Ong Cospe e curato dall’associazione indipendente Zona -, insieme al documentario Lontano da Tahrir, girato da Ernesto Pagano e Lorenzo Cioffi durante le elezioni egiziane del 2011.
Abbiamo incontrato Francesca Leonardi e le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza in questi villaggi, dove le donne sono condannate all’analfabetismo e ai matrimoni precoci e gli operai sono ancora reclutati secondo il metodo del caporalato. E’ qui, lontano dai media, che donne e giovani del distretto si sono organizzati in comitati e associazioni femminili e stanno provando, con l’aiuto di Cospe, a rompere gli schemi con l’istruzione e la coscienza civica.
Come sei stata coinvolta nel progetto?
Mi trovavo già in Egitto da circa due mesi, dall’inizio di novembre, per seguire le prime elezioni libere del dopo Mubarak. Ero già in contatto con Zona, che mi ha presentato il progetto di Cospe. L’idea mi era piaciuta molto e quindi, insieme a Pamela Cioni, a Lorenzo Cioffi e a Ernesto Pagano, che stavano girando il documentario Lontano da Tahrir, abbiamo iniziato questa esperienza.
Qual è stato il tuo approccio con queste donne? Da dietro l’obiettivo, come si è posato il tuo sguardo su di loro?
Per me è stato essenziale raccontare, non solo attraverso i loro volti, ma anche attraverso la loro vita quotidiana. I due villaggi, da noi vissuti e visitati, presentano delle differenze: mentre El Saff è più industriale – e quindi non vi si trova solo gente del posto, ma persone che arrivano un po’ da tutto l’Egitto per lavorare in queste mattonaie -, El Desamy, invece, è in un contesto più rurale, più chiuso. Abbiamo cercato di far sentire a proprio agio queste persone, che in fondo ci regalavano un po’ delle loro vite, chiedendo loro cosa avrebbero voluto che noi fotografassimo e raccontassimo; quali erano le cose più importanti e significative del loro quotidiano. E così, mentre le donne ci aprivano le loro case, i ragazzi ci portavano sulle sponde del Nilo, dove avevano vissuto e vivono le prime esperienze amorose o dove riposano dopo il duro lavoro.
Quali difficoltà avete incontrato? Erano reticenti o aperti a questa nuova esperienza?
Naturalmente le difficoltà erano legate al fatto che le donne volendo mostrare le loro case erano vincolate dalla presenza di un familiare maschio, che non sempre era disponibile.
E questi familiari erano felici di farvi entrare in contatto con le loro figlie, madri o mogli o qualcuno si è rifiutato di accogliervi in quanto occidentali e quindi portatori di problemi per la loro tranquillità domestica?
Pamela ed io, essendo donne, abbiamo avuto senz’altro meno problemi di Ernesto Pagano e Lorenzo Cioffi, gli autori del documentario, che si sono anche visti vietare l’accesso in case dove noi eravamo state accolte il giorno prima. Il lavoro svolto in questi anni da Cospe ci ha, però, aiutato tantissimo, perché in qualche modo parlando a nome della Ong avevamo più libertà di movimento, ma era comunque difficile, perché prima di essere accettate anche noi, dovevamo spiegare molto bene il senso del nostro lavoro.
Qual è la condizione femminile in questi distretti? Rispetto ad esempio a Il Cairo, dove le donne sono a volte più vicine ai nostri canoni di libertà, l’analfabetismo è veramente così alto e le donne sono ancora proprietà della famiglia?
L’analfabetismo è veramente alto. Alcune donne stanno iniziando a leggere solo ora, grazie ai progetti di Cospe. Io credo che la differenza, più del luogo, la faccia la classe sociale: più ci avviciniamo agli strati poveri della società, più la condizione della donna peggiora. Una giovane mi ha colpita più delle altre. Si chiama Susanne, ha 23 anni è di El Desamy. E’ uno dei ritratti e delle storie del libro. Ha affrontato un percorso complesso e coraggioso: era sposata, il suo matrimonio è andato male e questo, naturalmente, nel suo villaggio è visto come una sorta di iattura. E’ stata quindi costretta ad indossare il velo integrale per non incorrere in maldicenze, che sostituisce con l’hijab (che copre solo il capo) non appena si allontana dal villaggio.
La Rivoluzione in Egitto ha comunque portato un vero cambiamento per queste donne e questi giovani?
Hanno assaporato una maggiore libertà, anche grazie alle associazioni e ai sindacati sorti in quel periodo. Siamo tutti consapevoli che il processo sarà lungo e complesso. Ci vorranno anni perché le cose cambino veramente. Certo è che non si tornerà più indietro.
Che prospettive ci sono per il futuro?
La crisi economica è fortissima. Sono pochi gli investimenti, perché naturalmente l’Egitto è considerato un Paese a rischio. Il lavoro scarseggia, ma loro non si arrendono. Ho visto persone che hanno voglia di fare e quindi credo che, nonostante le difficoltà, ce la faranno. In fondo molti dei ragazzi che affollavano Piazza Tahrir venivano proprio da qui.