FocusMéditerranée pubblica questa settimana il decimo estratto di Testimone a Gezi Park, il libro di Luca Tincalla, scrittore e giornalista italiano che abita ad Istanbul e ha seguito in prima persona la rivolta turca scoppiata nel maggio 2013. In questa puntata la sollevazione a Yeniköy, i giornalisti stranieri che se ne vanno e la speranza di poter diventare un’alternativa concreta all’ “uomo coi baffi”. [da “The show must go on].
Siamo arrivati alla fine. Ma la fine non è che un inizio. Ma prima di chiudere con il “processo di consapevolezza” volevo raccontarvi un’ultima storia. Da quando a Gezi Park la polizia presidia il parco, non essendo io né un cuor di leone né un facinoroso, ho deciso di lasciare la protesta ad altri duranadam che non vedono l’ora di essere ripresi dalle tv indipendenti. Prima c’era la “moda” di andare al parco, ora quella di rimanere fermi come salami nella piazza di Taksim. Ogni forma di protesta, purtroppo, nell’arco di una settimana viene derubricata a fenomeno di costume. E’ incredibile. Non è questa la storia, tuttavia.
Comincio. Io vivo a una decina di chilometri, circa, da Taksim; che non è il centro della città di Istanbul, ma uno dei suoi centri. Se vi siete persi, controllate nei primi capitoli. Anche qui dove vivo, a Yeniköy, c’è un parco da difendere. Un fazzoletto verde di pochi metri quadrati, dove bivaccano cani randagi e pascolano passeggini residenti, è stato minacciato dalla costruzione di una moschea. E’ da qualche settimana che alcune delle persone del quartiere prendono le firme per inviare, democraticamente, una petizione. E la sera si riuniscono simbolicamente nel parco. Non l’avessero mai fatto/non l’avessimo mai fatto. Ieri sera è stata organizzata dai soliti (ig)noti una spedizione punitiva. Botte da orbi, bastoni e coltelli. Un’altra volta. Perché l’orrore non ha mai fine.
La novità è che stavolta ho deciso di non fuggire. Perché altrimenti sarei diventato anch’io un duranadam da tv e nient’altro.
E’ durato poco; ma intenso. Poi sono arrivati gli altri “provocatori” e i giustizieri se ne sono andati via. Dopo un po’ sono arrivate anche le ambulanze che hanno raccolto cinque feriti e ultima è arrivata la polizia. Stasera quello che, in teoria, è stato l’artefice di questa “lezione di demorazia” è sotto scorta. Già. La polizia è arrivata con due camionette e un autoblindo per proteggerlo. Ma per proteggerlo da chi? Da noi? Da me? Da persone che vogliono proteggere gli alberi? E’ per noi tutto questo spiegamento di forze? Non capisco, ma sono lusingato. Analista, tu che dici?
La verità? Anche qui a Yeniköy, fino a ieri quartiere tranquillo e residenziale di Istanbul, temo ci siano dei “rivoltosi”. Delle persone che celebrano in un appezzamento minuscolo coperto da cacche di cani il loro personale e privato Gezi Park.
E ora ci vorrebbe una bella chiusura. Una del tipo che i giornalisti stranieri se ne stanno andando via tutti e fra poco rimarrò solo a raccontarvi queste storie. Io che non sono un giornalista né voglio esserlo, ma purtroppo in Turchia ci stanno certi/e soggetti/e che, al posto di scendere in piazza a vedere cosa succede, si trincerano in casa e parlano solo tramite agenzia stampa (tradotte dall’inglese all’italiano poiché non parlano nemmeno una parola di turco). Ma non renderei giustizia al popolo turco, è a loro che devono andare le mie ultime parole.
Ma non mi vengono.
Sto pensando che tutta ‘sta protesta dovrebbe sfociare in un movimento concreto e che tutte queste persone dovrebbero dare vita a un partito, un partito che faccia da ombrello a tutte queste diversità presenti, vero, e che sia in grado di dare nuove proposte e speranze. Siamo scesi per le strade in milioni, cercansi: analisti, sociologi, pensatori, matematici, baristi, camionisti, impiegati, politici, infermiere, casalinghe, gigolò, puttane, eccetera… che vogliano dare non solo risposte al Governo di Erdoğan, ma che siano in grado di proporre qualcosa di destinato a durare. E, se volete, cercasi nuovo leader.
L’avevo detto, le parole non mi vengono più. Sto alla frutta e voglio infierire su me stesso.
Diciamo, allora, che tutto quello che ho scritto non è vero. E’ una bugia. L’ho fatto solo come terapia. Svevo con lo stesso escamotage era riuscito, finalmente, a uscire dall’anonimato. Ho pensato potesse funzionare anche per me. Ecco, decisamente meglio.
Ma se, invece, fosse tutto vero?
Quando qualcuno comincerà a dubitare della “verità”, allora con Michele e Gianluca andremo a farci una birra, o un ayran, alla sua salute. Anzi, andremo tutti insieme; che è meglio, perché i turchi pagano sempre la prima bevuta. Ma poi, forse, questo qualcuno dirà a un altro qualcuno che non è tutto oro quel che luccica; e magari al prossimo appuntamento saremo in dieci. Quando in cento dichiareremo che non vogliamo più essere considerati dei “rivoltosi” solo perché protestiamo, la maggioranza ancora proverà a chiuderci la bocca -con il silenzio dei media o con il rumore dei bastoni – per paura, anche loro, di essere perseguitati da un uomo coi baffi. Un giorno saremo forse mille, chi lo sa, ma se continueremo così, non e detto che non ci si arrivi. A diecimila no, ma a centomila forse cominceremo ad aprire gli occhi pieni di prosciutto (che è uno scandalo, in questo paese!) e riconosceremo che il più grande visionario contemporaneo della Turchia è in realtà un astronomo cieco; e che tutto questo boom economico sarà un boomerang quando le multinazionali ci lasceranno. Quando in milioni, infine, alzeremo le mani al cielo non in segno di resa, ma per toccare le stelle; ecco, solo allora, in molti si accorgeranno di essere monchi e di essere stati dei ciechi.
Un giorno, non oggi, la parola “fine” sarà scritta su questa storia. Quel giorno i raggi del sole daranno nuova luce ai rifugi – le case – dei “rivoltosi” e gas, blindati e proiettili torneranno là da dove sono venuti. Un giorno, non oggi, capiremo che il lupo non pere il vizio ma il pelo. Un giorno, non oggi, anche le camicie nere antisommossa si trasformeranno in bandiere e riusciranno, anche loro, ad alzare gli occhi all’oblio e alla vergogna.
Forse un giorno ritornerà l’intelligenza al posto di parole come democrazia e rivoluzione; parole che, giorno dopo giorno, nell’uso e abuso quotidiano sono spogliate di ogni significato. Forse un giorno la sensibilità sarà il nuovo termine di paragone e la vita e la morte non saranno più soggette alla vanità di un uomo che, sebbene alto come un marcantonio, ha lo spessore morale di un pelo dei suoi baffi.
Forse un giorno…