Rivoluzione libica: questione di punti di vista. I messaggi fuorvianti dei mass-media (parte 2)

di Gianluca Lattuada
(studente di Economia dei Mercati Emergenti presso l’Università Cattolica di Milano)

L’informazione ha giocato un ruolo fondamentale durante le rivolte nei Paesi nord africani. Migliaia di voci, rimaste soffocate dalla censura, sono riuscite a librarsi in volo, raggiungendo gli angoli più remoti della terra attraverso l’infinita autostrada costruita da internet.
Tutto ciò non era possibile fino a quel momento. La politica dei regimi controllava televisioni e giornali e veicolava l’informazione.

Soffermiamoci per un attimo sui messaggi errati, se non addirittura fuorvianti, che i mass media hanno fatto passare in quel particolare momento.

Durante le rivoluzioni in Egitto e in Tunisia si è glorificato il comportamento dei manifestanti che, sprezzanti del pericolo, hanno deciso di diffondere i propri pensieri politici e le immagini raccolte con i cellulari per dare una versione alternativa a ciò che stava succedendo realmente nel loro Paese.

Con l’attacco alla Libia, deciso frettolosamente e in maniera poco diplomatica dai Paesi occidentali, le notizie di guerra sono entrate di forza nelle case degli italiani, per diversi mesi letteralmente bombardati da video e comunicati politici. 

Il compito dei mas media era chiaro (e di fondamentale importanza): l’opinione pubblica andava sensibilizzata. Il conflitto non riguardava più persone e realtà a noi lontane. Gli aerei italiani erano pronti a partire e non c’era più spazio per ripensamenti.

Inizialmente, si è deciso di far passare un malcontento regionale riguardante la parte settentrionale della Cirenaica come una rivolta dell’intero popolo, ignorando completamente la storia sociale e politica di una Libia controllata a zone da tribù, tra cui quella di Bengasi, da sempre considerata la più problematica.

Inoltre, elogiando l’informazione via internet usata dai manifestanti durante la cosiddetta “primavera araba”, si è deciso di puntare su una campagna mediatica costruita sulla lotta di strada, sottolineando la dicotomia cittadino-militare e deviando da quella che era la realtà: in una guerra civile la linea tra esercito e nemico non può essere così chiara, essendo le due parti all’interno della stessa terra.

Frasi come “L’esercito continua a mietere vittime fra i civili” erano all’ordine del giorno. Ma, se si osserva bene, ci si può facilmente convincere che, a fronteggiarsi, erano due veri e propri eserciti. Con qualche differenza però. Ad uno erano state annientate tutta la forza contraerea, quasi tutte le basi militari e ogni magazzino di armi, mentre l’altro – l’inerme e impreparato esercito civile – veniva rifornito di cibo, aiuti e armamenti da parte degli Stati amici e veniva appoggiato da forze aeree che facevano “tabula rasa” degli obiettivi prima di ogni missione via terra.

Vi sono poi le prove che i servizi segreti e gli eserciti non ufficiali (contractors) siano stati inviati per aiutare ed addestrare gli insorti. Tra questi il Qatar, che ha mandato otto aerei Mirage e centinaia di soldati, tra i primi a fare irruzione nel bunker del Colonnello. Non dimentichiamo che il Qatar vive grazie al petrolio e ospita la sede di Al Jazeera, prima televisione araba per importanza e portavoce per eccellenza durante le rivoluzioni nord africane. Se prima, quindi, si ricevevano le informazioni solo da mezzi di comunicazione controllati dal regime, dopo si è passati a prendere come verità assoluta tutto ciò che arrivava dai ribelli e da un’emittente televisiva poco imparziale. Abbiamo assistito ad un’eclatante manipolazione mediatica. Una censura al contrario.

I bombardamenti degli aerei Nato sono scomparsi dai teleschermi dopo qualche mese, ma in realtà sono andati avanti fino alla fine del conflitto e hanno colpito anche obiettivi non armati (inizialmente avevano come target solo le basi antiaeree per permettere la no-fly zone). Al loro posto sono state trasmesse foto di fosse comuni – risultate in seguito vecchie di mesi e riguardanti un normalissimo cimitero libico – o immagini di “normali cittadini”, armati di tutto punto, che combattevano in strada contro un nemico invisibile.

Sembrerebbero filmati costruiti ad hoc per sottolineare la volontà popolare di ribaltare il regime. Si noti bene, però, che in molti video presenti in rete non c’è traccia di fuoco nemico e le situazioni sono tanto scenografiche quanto irreali, degne di alcuni celebri film hollywoodiani. Non mancano i simboli del regime defraudati: case lussuose saccheggiate, statue distrutte, foto di Gheddafi e bandiere bruciate, il tutto in onore dell’ignaro spettatore.

Un iter già visto, già collaudato. L’ultima volta? Nella guerra contro Saddam. La stessa campagna mediatica, le stesse immagini, le stesse bandiere e foto bruciate. Iracheni e libici con le due dita al cielo simboleggianti vittoria. In tipica mise americana.

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