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La bicicletta verde e l’abaya rossa

MIGRAZIONE-Diario AzizaIl Diario di AzizaEro abbastanza restia ad andarlo a vedere, giusto il giorno di Natale. Perché La bicicletta verde, il film tedesco-saudita di Haifaa al-Mansour che appassiona le platee occidentali, come pochi anni fa era capitato per Persepolis dell’iraniana Marjane Satrapi, sapevo che mi sarebbe piaciuto ma che mi avrebbe provocato dei mal di capo terribili. La questione sollevata da queste pellicole, infatti, è sempre la stessa. Come far capire a chi esce dal cinema che il mondo arabo non è tutto uguale, che le donne vivono realtà diversissime e reagiscono anche in modo diverso, che esistono fior di femministe ma anche di donne molto orgogliose della loro identità religiosa e culturale ma che comunque si battono per avere spazio nella società? Come scardinare i luoghi comuni, insomma, senza negare che la realtà raccontata ne La bicicletta verde sia assolutamente veritiera?

Il plot, semplice come un bicchiere d’acqua fresca, è questo: una ragazzina in età da scuole medie, per cercare di ottenere una bicicletta verde, oggetto del suo desiderio proibito – perché non si addice alle ragazzine onorate andare in bicicletta – non esita a partecipare a una gara di recitazione del Corano a scuola, pur di raggranellare la cifra necessaria all’acquisto. Naturalmente Wadjda (questo il nome della protagonista e il titolo originale del film) non è una stupidina ma una testa pensante. Tradotto in quella realtà sociale, è una ribelle patentata.

Questo film ha una cifra delicata e umoristica, pur nella sostanziale, silenziosa tragedia. La ragazzina non è una Cenerentola perchè è anche furba quanto basta; la madre non è solo una vittima del marito, dal quale subisce una serie di decisioni, non ultima quella di un secondo matrimonio. E’ una donna sensuale e pettegola, salvo poi comprendere che la ribellione della figlia è l’unica via d’emancipazione da assecondare.

Ma qui c’è tutto il mondo arabo, visto attraverso il prisma della complessità travestita da semplicità. Chi lo vive capisce di cosa si sta parlando. Chi non lo conosce cede alle semplificazioni dei media e delle ong per i quali il mondo arabo è tutto uguale, le donne vivono sottomesse e non hanno diritti. Quindi, toccherebbe a noi occidentali salvarle.

Come sapete, ci sto dentro fino al collo. E allora mi tocca dirvi cosa ci ho visto io. Ho visto tutte le mille astuzie che le donne mettono in atto per potere arrivare ai loro scopi senza sfidare apertamente la società. Ho visto il denaro e la bellezza portati a valori assoluti perché sono le stesse donne che li mantengono tali. Ho visto la devozione alla religione come un paravento dietro cui, ipocritamente, è lecito fare quel che conviene: basta essere sufficientemente furbe/i. Ho visto il divertimento nell’inganno e il senso di sconfitta nell’essere ingannati, il gioco delle parti, la gara tra donne vittime e carnefici.

Però c’è una cosa che mi ha fatto sobbalzare dalla sedia e, a distanza di tempo, ho capito perché mi ero comportata così. Quando la madre di Wadjda compra il vestito rosso, ultimo atto di seduzione nei confronti del suo uomo, già deciso a girarsi da un’altra parte, ho rivisto in lei quella donna a cui potevo essere legata da un rapporto di parentela, se solo avessi detto di sì. Lei, Hana, era prima moglie di un mio lui del passato. Anche lei comprò un abito rosso per giocarsi l’ultima carta, una abaya  trasparente con dei ricami oro. Avevamo un rapporto cordiale ma non capii mai se teneva dentro di sé un odio ben celato o se si era davvero rassegnata all’idea di condividere il marito con una straniera.

Fatto sta che mi spedì una sua foto con quell’abito indosso e un avvertimento digitato in arabo: kalas, basta. Io capii subito, biasimai lui e la sua scelta di buttare una donna per prendersene un’altra. Agii da perfetta occidentale, con complicità femminile, rinunciando al possesso del maschio per un ideale superiore di rispetto dei nostri diritti fondamentali. Ma non nascondo che ebbi paura di qualcosa di arcaico, di una vendetta primitiva. Ripensando a quella foto, Hana era bellissima: nei suoi occhi c’era tutta la notte nera.

 

 

 

 

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