E’ davvero incredibile quanto matto sia il mondo. Da una parte del globo la gente si scapicolla per iscriversi in palestra, programmare diete, comprare prodotti dimagranti, pastoni disgustosi da trangugiare per placare la fame. E prenota estetiste, chirurghi plastici, linfo drenaggi e liposuzioni per asciugare fastidiosi inestetismi.
Dall’altra parte del mondo, ci sta gente che è magra come un chiodo, malnutrita e che non sa cosa sia un bel pezzo di bistecca sanguinolenta per tutta la vita. O, quantomeno, ne assapora i vantaggi solo una volta l’anno.
Da questo punto di vista, non mi dispiace raccontarvi perché in Paesi islamici veramente poveri non si possa e non si debba inorridire di fronte alla mattanza di agnelli, caproni e vacche della festività di Eid al-Ahda, uno dei momenti più sacri del calendario musulmano che potrebbe essere paragonato – molto alla lontana, se non fosse solo per l’usanza di mangiare l’agnello – alla nostra Pasqua.
In quel giorno si ricorda il sacrificio di Abramo e come Dio/Allah volle risparmiare suo figlio Ismaele dalla morte, sostituendo al ragazzo un bel montone, che Abramo sacrificò per dimostrare a Dio la sua fede assoluta e la sua sottomissione. In questa occasione ogni famiglia si impegna a comprare o partecipare insieme ad altre all’acquisto di un capo di bestiame che deve essere adulto e presentare alcune caratteristiche che lo rendono adatto alla macellazione. Dopodiché si procede al taglio della carotide – un sistema che secondo la fede islamica è più indolore per l’animale – e tutta la carne macellata viene destinata in parte alla famiglia che ha acquistato il capo, in parte a familiari e vicini di casa, in parte donata a famiglie povere che non avrebbero alcuna possibilità di procurarsi la carne.
Molti occidentali, se in quei giorni capitano in Paesi a maggioranza islamica (di solito Egitto, Turchia, Marocco) rimangono particolarmente scandalizzati dal rituale e, soprattutto, schifati dall’esposizione di pelle, interiora e quarti di montone in ogni mercato o macellaio di quartiere.
Al di là della personale resistenza a cotanto sangue, mi sono sempre chiesta se la maggior parte di noi, quando attraversa dopo una giornata in ufficio gli asettici banchi frigo di un supermercato non si sia mai chiesta da dove viene e verso dove va quella carne. Se sappiamo che uno stabilimento isolato in campagna che produca quarti di bue o maiale o petti di pollo possa infliggere morti meno crudeli e puzzolenti di un rituale consumato sulle strade del Cairo.
E, cosa assai più colpevole, mi interrogo sul se il consumatore non si chieda mai che fine farà tutta la carne in scadenza. Di sicuro molti di quei lucidi e turgidi cosciotti e costate con osso, non finiranno a sfamare i veri poveri di queste ipocrite società. Qualificati con una parola politically corret come “homeless”, guardati con compassione pelosa nelle freddi notti di gennaio sotto qualche cavalcavia ed evitati come la peste sugli autobus delle metropoli di giorno. E, da questo punto di vista, direi che il fine (ossia la spazzatura) non giustifica per nulla i (cruenti) mezzi.