E’ dal tipo d’armi in uso che si definisce un conflitto in atto e l’obiettivo finale. Fucili e baionette prima, cannoni e missili poi hanno caratterizzato sempre guerre di posizione per la conquista di un territorio e le sue ricchezze mediante l’eliminazione fisica del nemico, quando la sua resa incondizionata non era possibile.
LA MIA VERITA’ – Tra il 2008 e l’inizio del 2009 la palla avvelenata del debito è passata dal settore privato a quello pubblico, determinando l’esplosione dei debiti sovrani e l’affermarsi in tutta Europa di politiche miranti a ridurre il debito pubblico. Ma la soluzione non sta nell’ipocrita austerity, piuttosto in un coraggioso controllo politico della moneta.
E’ con l’avvento degli scudi antimissile che si compie il primo passo significativo. Una vera e propria rivoluzione copernicana militare, perché dalle guerre di aggressione si passa a quelle di difesa. Una difesa in realtà simulata. Si procede, come nel gioco del calcio con il catenaccio, inducendo il nemico nella condizione di attaccare per primo.
Ma fin qui si tratta ancora di guerra militare. Il rovesciamento di orizzonte avviene col passaggio alla guerra economica: non si combatte più per conquistare un territorio e le sue risorse, bensì per controllare un Paese attraverso il suo flusso monetario. L’arma di ultima generazione è lo scudo anti-spread o Financial Assistance Facility Agreement (FAFA).
Dunque, se questa è l’arma, allora la guerra che si intende affrontare è una guerra finanziaria, subdola e pericolosa. Mira all’assoggettamento degli Stati e dei cittadini al potere monocolore del denaro, gestito da poche e grandi banche. E la crisi economica mondiale, in cui ci troviamo, non è causata dai deficit di bilancio degli Stati, bensì ne è la conseguenza.
Quella che stiamo vivendo è solo un’ulteriore fase della crisi del 2007-2008, che ha spezzato le reni dell’America per poi divenire globale. Una crisi di fine super-ciclo del debito e della finanza, come sostengono gli economisti John Maudlin e Jonathan Tepper. Ossia di un modello di crescita basato sul debito e sulla finanza. Un modello, questo, che esplose con il crack della Lehman Brothers, che portò alla luce il livello di indebitamento raggiunto dalle le famiglie americane e, soprattutto, l’insostenibile debito accumulato dalle maggiori banche e società finanziarie occidentali. Per evitarne la bancarotta si ricorse ad un salvataggio senza precedenti: banche centrali, governo degli Stati Uniti, Gran Bretagna e Paesi dell’Eurozona intervennero con garanzie e sussidi pari a 14 mila miliardi di dollari. Il rapporto Financial stabiliti review della Bank of England, datato giugno 2009, precisa che si trattava dell’equivalente del 50% del PIL di quei Paesi. Quel che si fece fu in pratica una socializzazione delle perdite del sistema bancario, che andavano così a pesare sulle spalle degli Stati ed in ultima analisi dei lavoratori.
Da allora, in realtà, il debito complessivo non si è affatto ridotto. A diminuire sul totale è solo la quota di debito privato. Il problema della compressione del debito pubblico è falso: non è la causa della crisi, bensì l’esito. Il fiume non va dunque arginato alla foce, ma alla sorgente, perché strada facendo non fa altro che gonfiarsi. Questo è quello che sta d’altronde capitando a tutti i Paesi dell’ Eurozona: per sostenere le imprese private del settore finanziario sono state messe in campo cifre tali da destabilizzare e mettere in serio pericolo i Paesi più deboli, come Irlanda e Spagna. Nel primo caso, per esempio, l’esplodere del deficit pubblico a ben oltre il 32% di PIL è dovuto alla sola assunzione dei debiti di due grandi banche sull’orlo del fallimento. L’Italia, invece, già gravata dai buchi di bilancio ereditati dai decenni precedenti, ha visto la diminuzione del prodotto interno lordo e quindi un peggioramento ulteriore del rapporto deficit/PIL.
Dunque, se il problema vero è un altro, la soluzione stabilita è un inganno. Intendiamo che le politiche di austerity – da sole e senza contrattazione – sono palliativi che allungano l’agonia, mentre la malattia si aggrava. E può risultare mortale.
In nessun Paese europeo il debito pubblico è la componente principale del debito complessivo. E soprattutto non bisogna confondere la solvibilità di un Paese – cioè la sua posizione nei confronti dell’estero – con la scomparsa del deficit pubblico. “Un Paese della zona euro con un debito pubblico significativo, ma senza più un deficit complessivo nei confronti dell’estero, ben difficilmente sperimenterà una crisi finanziaria: infatti è molto improbabile che investitori e banche di un determinato Paese si rifiutino di finanziare il debito del proprio Paese – scrive Patrick Artus
in una recente ricerca. Di contro un Paese che riduca il proprio debito pubblico, ma continui ad avere deficit nei confronti degli altri Stati, può trovarsi nei guai”. L’obiettivo primario non può essere il pareggio di bilancio, ma deve essere una bilancia commerciale – e più in generale dei pagamenti – in attivo all’estero. Risolto quello, può essere affrontato l’atro. Ma non viceversa.
Se guardiamo ai risultati di due anni di austerity su larga scala – cominciando a contare dal 2010 in Grecia – il risultato non può dirsi che negativo: il divario tra le economie dell’Eurozona è in costante aumento a beneficio momentaneo dei Paesi del Nord, ma a lungo termine gli svantaggi si ripercuoteranno su tutti.
L’unica soluzione è una rivoluzione copernicana economica. Il primo passo di questo cambiamento è rilanciare la domanda interna partendo dai Paesi che l’hanno più sacrificata. Il secondo è il sostegno alla formazione culturale e alla ricerca. Il terzo e ben più complesso: lo “spacchettamento” delle grandi corporate finanziarie da riportare sotto il controllo della politica. Perché in Europa – come scrive Marco D’Eramo su Micromega – non sia “la moneta a battere lo Stato, bensì lo Stato a batter moneta”.
2 Comments
farti i comlpimenti per me è troppo semplificativo!!!!Meriti una posizione di maggior rilievo per l’impegno e l’attenzione che dedichi a tutto ciò che fai.
complimenti Paola! sono così fiera di te..