La parola “prostituta” e tutti i suoi derivati possono dar vita ad accese battaglie e dibattiti, più per la strada che in parlamento. “Sharmuta”, شرموطة, in arabo, e “zonà” זונה, in ebraico, suonano in modo diverso, ma si riferiscono allo stesso lavoro. Quando si indirizzano alla moglie, madre, figlia o sorella di qualcuno, implicano la medesima vecchia offesa. In Israele, dopo la sacra e contesissima terra, non c’è bene più importante della reputazione della propria famiglia, da proteggere e preservare, costi quel che costi.
LA MIA VERITÀ – Secondo voi, l’Italia dovrebbe introdurre una legge simile a quella svedese?
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Si può dare a chi si vuole del terrorista, collaborazionista, assassino, razzista, kamikaze, colonialista, bigotto, estremista o nazista, ma l’offesa maggiore di tutte è ancora oggi l’espressione “figlio di…”.
Affrontare l’argomento prostituzione, con la necessaria dose di consapevolezza e serietà, non è quindi così semplice come dovrebbe. L’utilizzo del termine “puttana” o “prostituta”, abusato da tutti e spesso a sproposito, riflette l’arretratezza con la quale i governi ancora oggi, nel 2011, si muovono per fronteggiarla e attaccare il mondo sommerso del traffico umano: una schiavitù mai sconfitta di circa 27 milioni di persone, con un profitto di 9 miliardi di dollari l’anno in tutto il mondo.
L’organizzazione israeliana Task Force on Human Trafficking, in collaborazione con ATZUM e con lo studio legale Kabir-Nevo-Keidar, sta facendo pressione sul Ministero di Giustizia israeliano per far approvare una normativa che criminalizzi il cliente delle prostitute sul modello della legge svedese. Fino al 2008 la percentuale di uomini in Svezia che compravano sesso era pari al 13,6%. Questa cifra è scesa al 7,9% (una riduzione di quasi il 50%) dopo l’entrata in vigore di tale legge.
Con l’intento quindi di ridurre la domanda e dunque il traffico sessuale, l’organizzazione Task Force ha sviluppato lo scorso ottobre una provocatoria campagna di sensibilizzazione dallo slogan Women to go – “Donne in vendita” per raccogliere le firme della petizione da proporre alla Knesset, il parlamento israeliano.
Nonostante la campagna sia stata criticata da tanti, in molti si sono recati davanti al centro commerciale Dizengoff center – nel cuore di Tel Aviv – dove, nella vetrina di uno dei negozi, non c’erano i soliti manichini, ma giovani donne in carne e ossa. Al polso avevano appesa un’etichetta con tutte le generalità: età, peso, altezza, dimensioni, paese di origine e prezzo da pagare. L’effetto è stato immediato e duplice: da un lato la maggioranza delle donne sono corse a firmare la petizione, dall’altro gli oppositori all’iniziativa hanno riportato alla luce l’irriducibile luogo comune secondo cui le donne non sempre sono le vittime di questa situazione.
“Ciò che abbiamo voluto mostrare è un esempio di quello che succede nelle case, negli scantinati e nei cortili di questa città” spiega Kayla Zecher, una delle responsabili della campagna Donne in vendita.
L’immagine della donna che sceglie liberamente di prostituirsi per vivere – piuttosto che studiare o lavorare – senza vendere il proprio corpo, è lo stereotipo contro cui si deve combattere. Se si pensa alle attuali ricerche sulla prostituzione nel mondo, che rivelano quanto chi decida di prostituirsi condivida un passato di abusi sessuali e trascorsi traumatici, si giunge alla conclusione che di “libera scelta” non si può veramente parlare. La prostituzione sembra essere piuttosto il passo consecutivo di un percorso difficile, dettato dalle vicissitudini, spesso non risolte, del passato.
Portare questo mondo sommerso all’interno di un centro commerciale aiuta la gente a riconoscere il problema e a non distogliere lo sguardo. Vedere in vetrina donne con lividi e segni di percosse non è come leggere numeri e dati statistici.
L’emanazione di una nuova legge non è il solo scopo della campagna. Il suo intento è prima di tutto sensibilizzare in maniera diretta i cittadini israeliani, educando le future generazioni sul problema della prostituzione, affinché la parola “prostituta” evochi non più un’offesa all’onore dell’uomo, ma un danno alla donna: soggetto non libero di scegliere, ma oggetto vittima del traffico sessuale.