La parola può tutto. Per il filosofo Gorgia essa è in grado di «Spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione».
Nella “Casa della Poesia” di Salerno – città affacciata sul nostro mare – ne sono convinti, ne abbiamo parlato con Sergio Iaculli, promotore di questa residenza per poeti.
Come nasce il vostro progetto di “Casa della poesia”?
Il nostro progetto di casa è proprio quello di accogliere persone che arrivano da varie parti del mondo. Nasce negli anni successivi alla guerra in ex Jugoslavia: avevamo un contatto diretto con il grande poeta Izet Sarajlić, che viveva a Sarajevo ed è stato anche presidente onorario della nostra “Casa della poesia”. Izet non aveva lasciato neanche quando era cominciato l’assedio della città. Spesso gli chiedevamo perché avesse deciso di rimanere e lui era solito rispondere: “Se tutti andassimo via, chi racconterebbe l’orrore che sta succedendo al mio Paese e al mio popolo?”. Ci raccontava poi un aneddoto della poetessa russa Anna Achmatova, quando lei davanti al carcere di Leningrado, dove era tenuto prigioniero suo figlio, aspettava di poter entrare per visitarlo. Le attese potevano durare anche giorni; durante una di queste, una donna si mosse dalla fila e andandole incontro le chiese se lei, poetessa, potesse raccontare quello che stavano subendo. Anna Achmatova rispose semplicemente “Mogu”, che significa posso. Questa parola è poi diventata simbolo per i poeti.
Io credo che la poesia sia anche questo: la capacità di testimoniare, di raccontare quello che altri non riuscirebbero a fare. E questa possibilità mi sembra straordinaria.
Qual era ed è lo scopo, dei vostri incontri?
Siamo partiti anni fa proprio da un Paese dove era in corso una guerra fratricida nell’Ex-Jugoslavia. Siamo stati presenti per circa dieci anni a Sarajevo, organizzando un grande festival. Dopo l’assedio e con la fine della guerra, abbiamo provato ad usare la poesia come strumento di incontro, come ponte per far incontrare culture diverse. Ci sembrava di aver creato una sorta di terreno comune dove era possibile dialogare. Il nostro lavoro è quindi continuato in questa direzione, rivolgendoci soprattutto ai più giovani. Casa della poesia è una struttura che, da ventisei anni, promuove nel nostro Paese la poesia internazionale, realizzando progetti e festival in giro per l’Italia e per l’Europa. È una cifra del nostro lavoro, del nostro modo di intendere la cultura, la poesia, l’impegno sociale e politico attraverso la scrittura.
Abbiamo sempre immaginato che la poesia potesse essere il luogo in cui si sviluppano idee e si comprenda meglio la realtà raccontandola, soprattutto da persone che vivono grandi conflitti. Proprio da qui arrivano i segnali più utili a definire che cosa può essere e a cosa può servire la poesia.
In questi anni avete anche sviluppato un progetto che si chiama “voci Migranti” in cosa consiste?
Abbiamo invitato voci che arrivavano da varie parti del mondo e che seguivano flussi di immigrazione. A volte, si tratta di poeti che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza della fuga dai loro paesi come nel caso della siriana Maram al-Masri, che non può tornare in Siria in quanto indesiderata, poiché ha scritto contro il regime. “Voci Migranti” ospita grandi nomi della poesia internazionale, che incontrano studenti e docenti così da creare una sinergia con il territorio, per interessare i giovani. Ci sembrava giusto sentire artisti di Paesi in cui la ricerca poetica è così chiusa in se stessa – quasi senza riferimenti con tutto quello che accade intorno – e di quelli dove, invece, la ricerca poetica si sviluppa in luoghi estremamente problematici, come quelli dove è in corso un conflitto.
Avete ospitato quindi molti poeti provenienti anche dalle rivoluzioni arabe?
Abbiamo anche avuto un occhio di riguardo per quei Paesi che dall’altra parte del Mediterraneo erano in tumulto. Ci sembrava che da lì arrivassero, fino a pochi anni fa, degli aneliti di libertà: c’erano rivolte pacifiche e non, ma c’era un desiderio di democrazia. Da qui sono arrivatevoci estremamente importanti. In un mondo così feroce dobbiamo essere grati a questi viaggiatori della parola che hanno deciso di contrastare gli orrori della realtà con un’arma così fragile, ma nello stesso tempo così potente.
E le poesie d’amore?
Le poesie d’amore tendono all’universale come diceva Jack Hirschman “tutte le poesie d’amore sono poesie politiche e tutte le poesie politiche sono poesie d’amore”.
“Voci migranti” continua il suo viaggio?
Sì, abbiamo ospitato Paolo Rumiz per una riflessione sulla storia, cultura e identità europea partendo dal libro “Il filo infinito“. Perché una Europa che è sempre stata il punto terminale di popoli diversi, oggi respinge i barconi, oggi vive lo straniero con timore e diffidenza e lo rifiuta, lo discrimina, lo respinge? Questa pare essere la domanda principale del viaggio di Rumiz.
Poi, sino al 25 novembre ci saranno degli incontri con lo scrittore Faruk Šehić, conosciuto giovanissimo a Sarajevo, che ha ottenuto anche il premio letterario dell’Unione Europea. Faruk è interessante anche per la sua esperienza personale: quando aveva 22 anni, fu costretto ad abbandonare gli studi per prestare servizio militare in quella che lui racconta sempre come un’esperienza trasformativa devastante e di totale rottura. Un ragazzo che viene mandato a combattere e a sparare contro chi, fino a qualche giorno prima, era un suo compagno di università. La fine della guerra non ha segnato la fine delle sofferenze che sentono questi ragazzi, perché continuano ad avere questa malattia dell’anima.
In questi luoghi si rivela la potenzialità della scrittura e della capacità di comunicazione di quest’arte sottovalutata. Proprio lì riusciamo a scoprirla. Solo i poeti sono in grado di lavorare sull’animo umano.