Le guerre che si protraggono in Afghanistan, Iraq e Siria colpiscono senza pietà la popolazione civile. Violenze, privazioni, fondamentalismo e negazione di qualsiasi diritto altrui condannano alla scomparsa minoranze etniche. In questo immutabile scenario esistono vite ed esperienze che resistono per accendere una scintilla. I Am The Revolution è il documentario coraggioso della giornalista indipendente e regista Benedetta Argentieri che racconta di queste scintille attraverso la storia di tre donne e delle loro comunità. Il documentario è proiettato nei cinema di tutta Italia attraverso la piattaforma web Movieday, che promuove film indipendenti. Abbiamo incontrato la regista prima della proiezione.
Come nasce questo film?
Ho cominciato a viaggiare tra l’Iraq e la Siria nel 2014, come reporter. Mi ero resa conto che c’era uno stereotipo, (anche e soprattutto nei media occidentali) della figura femminile di quelle zone: l’immagine che ci viene riportata è quella della donna velata, che ha subito violenze e quindi bisognosa di un aiuto esterno per sopravvivere, o quella della combattente sexy, basta pensare alle immagini delle combattenti curde. Quando, però, si descrive una persona in questo modo, la si spoglia del suo significato. Mi viene in mente la notizia della morte di una combattente curda che avevano chiamato l’Angelina Jolie del Medio Oriente. Le donne curde si sono arrabbiate per questo accostamento. Viaggiando in queste zone, ho pensato di fare un film che raccontasse la lotta della donna e, non solo il Rojava (regione autonoma nel nord-est della Siria ufficialmente non riconosciuta da parte del governo siriano N.d.R) e le donne combattenti, perché non sono una scheggia impazzita. Queste donne che prendono le armi rispondono all’esigenza di poter cambiare la loro società, in Iraq come in Afghanistan e come in moltissimi altri posti nel mondo. Ho scelto tre Paesi che, nonostante siano diversi tra loro, hanno molto in comune. In ognuno di questi, le donne trovano la propria modalità di lotta.
Rodja Felat, una delle comandanti che ha guidato l’offensiva su Raqqa con 60mila uomini e donne, spiega che la lotta armata è solo un passaggio.
Yanar Mohamed ha creato un network di rifugi (OWFI) per le donne che scappano dal delitto di onore, dalle violenze, dalla prostituzione. L’attivista le nasconde dalle proprie famiglie e dai propri aguzzini in luoghi di rifugio segreti.
Selay Ghaffar è la prima portavoce donna del Partito della Solidarietà dell’Afghanistan, l’unico partito laico. Da anni si è occupa dei diritti delle donne, andando nei campi profughi e promuovendo l’emancipazione femminile e l’alfabetizzazione dei bambini. Si reca personalmente nei villaggi, anche molto remoti, dove il governo non arriva, per capire cosa si può fare per aiutare queste persone. Ricordiamoci che in alcuni posti dell’Afghanistan non c’è niente, non c’è luce, non c’è acqua, l’accesso alle strutture sanitarie è pressoché impossibile e spesso non è permesso dalle famiglie stesse, le donne continuano a morire di parto. In Afghanistan solo il 14% delle donne è alfabetizzato.
Ci racconta il perché della scelta di questo titolo “I Am The Revolution”?
Le ragioni sono due: la prima, perché durante la prima protesta pubblica di Bagdad, che noi abbiamo filmato l’8 maggio, uno degli slogan era “Io sono una donna, io sono la rivoluzione”. La seconda ragione è che, secondo me, tutte queste donne sono la rivoluzione. Togliersi il velo, scoprire il volto, andare a scuola, non accettare i matrimoni minorili, … ognuno di questi gesti, per quanto sia piccolo, è una “rivoluzione”.

Quanto l’ha coinvolta, emotivamente, girare questo film?
Girare questo film è stata per me un’esperienza bellissima. Il team che ha lavorato con me era di sole donne. Abbiamo scoperto una maniera di stare insieme che ci ha sorpreso e, attraverso queste scelte, sono un po’ cambiata anche io. Stare vicino a chi tutti i giorni rischia la vita, dal momento che esce da casa o nella sua abitazione stessa, mi ha dato una forza incredibile.
Quali sono i cambiamenti che queste donne si trovano ad affrontare tutti i giorni?
La vita nei posti di guerra è molto precaria. Ci sono state diverse trasformazioni e i rischi giornalieri sono tanti: essere rapite dall’Isis o essere trucidate. Ma nella violenza più totale, la formazione di questa unità di protezione delle donne ha dato una concreta possibilità di scelta ed è per questo che dalla loro nascita, nel 2012, da quattro donne che erano inizialmente, ora sono 24mila. Una delle critiche che viene spesso fatta a queste unità e che nelle loro fila ci sono anche minorenni, che non vengono mandate al fronte. Sono donne che altrimenti sarebbero destinate a matrimoni forzati dalle loro famiglie. Non è solo la guerra contro l’Isis, queste unità di combattenti hanno come fine ultimo quello di cambiare la società. Dietro c’è un lavoro politico per far prendere coscienza alle donne che non devono accettare passivamente quello che viene loro imposto.
Info: Le nuove date di proiezione su movieday