Questa settimana FocusMéditerranée vi parla di Susan Dabbous, giornalista italo-siriana, che nell’aprile 2013, insieme ad altri tre reporter italiani, è stata sequestrata in Siria, mentre seguiva gli scontri che ormai da marzo 2011 investono il Paese. All‘International Journalism Fest, insieme a Richard Colebourn, Andrea Iacomini e Maria Gianniti, Dabbous ha raccontato la sua storia, da cui è nato il libro Come vuoi morire?.
Susan Dabbous, 31 anni, romana e siriana da parte di padre, inizia a narrare gli undici giorni di prigionia a seguito del suo rapimento, nel villaggio di Ghassanieh.
Separata dai tre giornalisti con i quali si trovava al momento del sequestro – Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe e Andrea Vignali -, Susan definisce la sua, un’esperienza umana e psicologica molto forte, ma sottolinea anche di non sentirsi affatto un’eroina per quanto ha vissuto, bensì una semplice reporter che voleva raccontare quanto stava accadendo nel suo Paese d’origine. La giornalista – che ormai vive tra Beirut e Gerusalemme – entra in Siria illegalmente attraversando il confine turco e, al momento del sequestro ad opera di un gruppo di ISIS, decide di usare quella che lei stessa definisce “la carta siriana e musulmana”, chiedendo immediatamente un processo di conversione (è figlia di madre cattolica) per meglio entrare nel tessuto sociale dei suoi detentori.
E’ da questo momento che Susan ha modo di “sbirciare” – ed appuntare sul suo diario – la vita quotidiana di quelli che apostrofa come “jihadisti della domenica”, aderenti ad un islamismo oscurantista e superstizioso, lontano dalla sua cultura islamica e che poco ha a che fare con l’Islam tradizionale. Ed è sempre in questo frangente che entra a stretto contatto con Miriam – la giovane moglie di uno degli uomini del gruppo -, che vive con lei la quotidianità, curandosi della casa e mostrandole le foto del matrimonio appena celebrato.
Molto differente, invece, è il rapporto con il leader del nucleo: si mostra particolarmente ostile nei confronti di Susan, ritenendola una sorta di “ibrido” da riformattare, in quanto “nata giusta ma cresciuta sbagliata”. Proprio per questo, racconta Dabbous, l’uomo si rivolge a lei con enorme violenza verbale, arrivando a vere e proprie minacce di morte; da qui, infatti, il titolo del libro.
Ma uno dei momenti peggiori è senza dubbio quello del rilascio: coperta con un passamontagna, Susan viene condotta su un mezzo di trasporto, dove sente uno dei miliziani caricare un fucile e una pistola. Durante tutto il viaggio si accavallano la paura per una possibile esecuzione o per la “vendita” di lei e dei suoi compagni ad altre frange di ISIS in Iraq. Ma la tensione si stempera nel momento in cui si libera dal passamontagna e riabbraccia gli altri tre giornalisti, con i quali, ormai in Turchia, attende il volo diretto in Italia.
Nonostante la sua esperienza, Susan Dabbous si dice speranzosa nei confronti della fine del conflitto, a seguito del quale, secondo il suo punto di vista, la Siria potrebbe addirittura trasformarsi in uno Stato “spacchettato”, perdendo così la propria unità.
Resta, però, nelle parole della giornalista, una forte critica nei confronti della comunità internazionale: repentina nell’intervenire in Libia, infatti, questa ha tralasciato la Siria, considerandola forse soltanto “ricca di pistacchi” e dimenticandone, così, l’importanza dal punto di vista geografico e religioso.
In una situazione drammatica che, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (le Nazioni Unite hanno deciso di sospendere il conteggio delle vittime), ha provocato già 140mila morti e che, secondo Andrea Iacomini – portavoce di UNICEF Italia -, rappresenta la più grande emergenza umanitaria degli ultimi decenni (si pensi, per esempio, alla condizione del campo rifugiati di Zaatari), la frase conclusiva del libro di Susan Dabbous risulta quantomai veritiera: “anche qui finirà la guerra un giorno. Il problema è solo capire quando”.
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