Si è conclusa nei giorni scorsi a Perugia l’ottava edizione dell’ International Journalism Fest, l’ampia rassegna ideata da Arianna Ciccone e dedicata alle evoluzioni del giornalismo e della comunicazione, ai loro protagonisti e ai temi di attualità che maggiormente attraversano mass media “tradizionali” e new media. FocusMéditerranée ha partecipato ad alcuni tra i tanti interessanti appuntamenti. Oggi vi proponiamo il racconto di uno di essi, dedicato a (In)visible cities, il documentario (ancora in fase di realizzazione) di Angelo Gianpaolo Bucci e Beatrice Ngalula Kabutakapua. Prossimamente pubblicheremo un altro intervento cui abbiamo assistito, che ci porterà in Siria.
Il progetto “(In)visible cities” nasce, nel marzo 2013, dalla volontà dei due autori di raccontare le storie delle comunità di origine sub-sahariana costituitesi, a seguito della Diaspora africana, in 13 diverse città dei cinque continenti. Colpisce particolarmente l’intento di Bucci e Kabutakapua di dare vita al documentario in modo del tutto indipendente, con un microfono, una piccola telecamera e senza alcun appoggio esterno (solo di pochi giorni fa, infatti, è la notizia che Fiverr ha deciso di sponsorizzare l’iniziativa) : “Quando abbiamo iniziato – dice la giornalista di origine congolese – avevo solo 400 sterline sul mio conto in banca”. Per Bucci, “l’obiettivo non è dare una ‘lezioncina’ ai canali mainstream”, bensì sfruttare appieno la libertà offerta dalla produzione indipendente, adottando linguaggio e approccio nuovi in relazione a tematiche troppo spesso trattate in modo stereotipato e sempre uguale a se stesso.
Così, da Cardiff a Los Angeles, da Istanbul a New York (e per tutte le tappe che andranno ad aggiungersi), i due raccolgono testimonianze e seguono la quotidianità di persone dai vissuti tra loro molto differenti. Si tratta di rifugiati e richiedenti asilo, professionisti affermati e comunità integrate nelle città d’arrivo. Un lungo lavoro preparatorio, in cui la ricerca di informazioni (articoli accademici, interviste…) risulta cruciale per comprendere al meglio il costume e la cultura di ciascun gruppo considerato e instaurare con lo stesso un vero rapporto di fiducia già prima di intervistarne i membri.
“(In)visible cities”, insomma, vuole mettere lo spettatore davanti a tutti quei luoghi – e alle storie in essi contenute – che, troppo spesso, nella narrazione collettiva diventano soltanto sinonimo di degrado e pericolo. Un’immersione senza pregiudizio o pietismo, partendo dal presupposto che “tutto il mondo può essere la nostra casa“.
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