Appena presentato alla stampa, il libro di Luca Attanasio “Il Bagaglio” (Albeggi Editore) è destinato a tutti coloro che si interrogano sul fenomeno dell’immigrazione – clandestina e non – e sulla sorte di tanti bambini e ragazzi che raggiungono le nostre coste senza genitori, parenti, amici.
Nel raccontare le storie dei migranti, Attanasio fornisce una visione chiara ed esaustiva. Nel suo libro c’è il deserto e l’infinito numero di vittime che esso miete; la Libia e le sue violenze; Mare Nostrum e Triton, con i migranti strappati a morte certa; il Canale di Sicilia e il suo enorme cimitero sottomarino; e i centri di accoglienza in Italia.Il racconto delle migrazioni diventa sempre più una rappresentazione appiattita sui numeri (dei vivi e dei morti), di individui senza nome che ogni giorno perdono la vita nel Mediterraneo. Come possiamo evitare che accada?
Questo è il problema dei problemi, perché parleremo di quote, di masse, di persone che si muovono, di numeri, di statistiche e di sicurezza. Sicuramente è un atteggiamento che non aiuta a capire fino in fondo. Questi dati, inoltre, molto spesso vengono esasperati e portano anche a leggi e a misure completamente sbagliate che non aiutano nessuno: né chi parte, né chi dovrebbe accogliere. Per ovviare a questo fenomeno, l’unico modo che io conosco è quello di partire dalle storie e dalle vicende umane, partire cioè dal particolare per arrivare all’universale. E’ chiaro che non si può fare per tutti. Credo, però, che la capacità del giornalista, o di chi si occupa di descrivere e di intervenire in questo campo, dovrebbe essere quella di avere una curiosità “umana”: cercare di capire fino in fondo, fermandosi e mettendosi in ascolto di persone che raccontano il proprio dramma, ma anche trovare l’incanto di fronte a tante storie. Esse sono certamente tragiche, ma anche cariche di elementi di bellezza, passione, coraggio, determinazione, resilienza e resistenza. Attraverso l’ascolto, quindi, si possono comprendere anche i macro fenomeni, perché si apprendono da chi li ha vissuti e non da inesperti o da studiosi che non hanno un contatto diretto.
Nel suo libro, infatti, lei dà voce a quanti ce l’hanno fatta. Quali sono le loro storie?
In questo nuovo lavoro, ho ripercorso un’esperienza già collaudata con il mio libro precedente che mi era piaciuta molto. Si trattava di tre donne rifugiate politiche e vittime di torture che per due anni mi hanno raccontato la loro storia. Ho concentrato, con il “bagaglio”, la mia attenzione sul fenomeno dei minori stranieri non accompagnati, cioè quei ragazzini che in fasce di età sempre più basse, partono. Sono invitati a partire o, in alcuni casi, addirittura costretti a intraprendere questa “avventura” o disavventura: a mani nude, da soli, senza il conforto di un genitore, di un parente, di un amico, ma al massimo di qualche coetaneo. Le loro sono storie incredibili, paurose anche per un adulto, soprattutto se pensiamo che a viverle sono ragazzini di 12/13 anni, in alcuni casi pure più piccoli. Variano anche secondo l’area geografica da cui provengono. C’è, per esempio, chi scappa dalla guerra o dalla persecuzione dittatoriale, come gli eritrei e i gambiani. Il Gambia è un Paese piccolissimo, con neanche due milioni di abitanti, eppure, secondo stime non ufficiali ma attendibili, sarebbero in fuga circa 300mila persone a causa della persecuzione politica. L’Eritrea, come sappiamo, è il buco nero della storia attuale; secondo una recente indagine, è addirittura riuscito nell’impresa di essere peggiore della Corea del Nord in quanto a libertà e diritti civili. Poi c’è chi scappa da situazioni di instabilità o da disastri ambientali. Pensiamo ai ragazzini che arrivano dal Bangladesh: fuggono dalla povertà estrema, ma anche dall’impossibilità di vivere in alcune zone a causa di continue alluvioni provocate dal Gange, il Brahmaputra e dal mare. Arrivano, inoltre dall’Afghanistan, dall’Africa sub-sahariana, e dal corno d’Africa. Il fenomeno nel fenomeno sono poi gli egiziani, che arrivano da una grande instabilità politica. Molti di loro vengono venduti dai genitori e quindi, rispetto agli altri coetanei che hanno un progetto famigliare per dare una svolta a tutto il nucleo, subiscono solamente. Queste storie hanno però qualcosa che li accomuna: l’esperienza del viaggio.
A proposito del viaggio, cosa succede a questi ragazzi durante le traversate?
Nel mio libro io ho cercato di fare una denuncia, accendendo i riflettori su fenomeni di cui non si hanno dati certi. Come sappiamo non esiste una via legale per arrivare in Europa dai Paesi da cui provengono questi ragazzi. Non vai all’ambasciata a farti rilasciare un visto, perché nessuna ambasciata europea è disposta a dare un lasciapassare a queste persone, a meno che non siano ricchi o possano dare delle garanzie. L’unico modo è affidarsi ai trafficanti. E dal momento che i ragazzini si mettono in mano a questa gente, diventano di loro proprietà. Pagano una somma iniziale molto alta, che diventa infinita: ad ogni tappa viene richiesto altro denaro. Le cifre vanno da 3mila dollari sino anche a 12mila. Per queste persone che arrivano da una povertà estrema, ciò vuol dire contrarre un debito a vita. Ho intervistato alcuni di loro che lavoravano diciotto/venti ore al giorno, ma che non percepivano uno stipendio perché dovevano ripagare il loro viaggio.
Nel loro cammino verso l’occidente, i pericoli che devono superare sono innumerevoli: subiscono umiliazioni, torture, violenze anche sessuali. Mi hanno raccontato di ragazzi che venivano mutilati con il taglio dell’orecchio spedito alle famiglie per richiedere altro denaro. Ci sono poi delle tappe del viaggio da cui non riescono più ad uscire e rimangono in schiavitù in queste zone di confine. Dobbiamo capire che sono persone che non hanno niente da perdere, che hanno messo in conto anche la morte. E’ ridicolo pensare di fermarli.
Ci racconta perché sempre più minori arrivano da soli sulle nostre coste?
Nel 2014, si calcola che siano arrivati in Italia circa 12mila minori non accompagnati. Ciò che ha favorito questo fenomeno è in prima battuta “Mare nostrum”, l’operazione che ha garantito il pattugliamento e il soccorso in mare aperto sino alle coste della Libia, salvando molta gente da morte certa.
L’inasprirsi dei conflitti in alcune aree del nostro continente ha acuito lo spostamento generale – e non solo quello dei ragazzi. Altra causa è legata il principio di inespellibilità: un minore che arriva in Italia da solo non può essere rimpatriato. Una famiglia che deve quindi investire una cifra che la indebiterà vita natural durante, fa partire un minore perché ha la certezza che non verrà rimandato indietro.
Qual è il loro destino una volta superato il nostro confine?
Vengono identificati e dichiarati minori, se lo sono. A volte, purtroppo, non sono riconosciuti tali. Altre sono dichiarati minori, anche se sono maggiorenni. Nel mio libro, spiego meglio questa truffa (si pensi a “Mafia Capitale”). Nei centri di accoglienza, il minore viene sostenuto dallo Stato doppiamente rispetto ad un adulto. Si è lucrato su questo vantaggio in maniera criminale e la cosa grave è che, all’interno di una casa famiglia, si trovano così giovani di sedici anni a contatto con uomini di trenta, con tutti i problemi che ne conseguono. Si innescano anche meccanismi di abuso, soprattutto tra persone della stessa etnia. Save the children, dice giustamente, che nel dubbio, nella fase di riconoscimento, bisogna accoglierli comunque. Una volta accertata l’età, in un primo momento i ragazzi rimangono in un centro dove dovrebbero stare massimo 72 ore; ma con il sistema inefficiente che abbiamo, rischiano di restarci anche sei mesi. Poi, vengono inseriti o in una famiglia affidataria o in una casa famiglia e naturalmente vengono accuditi e mandati a scuola. Viene data loro anche una tesserina per telefonare. Altro problema è che, quando diventano maggiorenni, vengono messi alla porta. Per i giovani, magari arrivati da poco in Italia, significa essere preda della criminalità. La cosa positiva è che questi ragazzi sono una risorsa per noi, hanno passato le prove peggiori, hanno resistito, si sono formati, sono pronti a lavorare, sono onesti, puliti, sani. Sarebbe un errore clamoroso vederli soltanto come vittime. Loro non chiedono questo, chiedono un’opportunità. Molti di loro mi hanno detto “io voglio dare il mio contributo all’Italia”. Sarebbe un peccato lasciarli preda ai criminali. Mi sono imbattuto in storie bellissime che mi hanno insegnato molto.