L’uomo che vendette la sua pelle: quando il corpo si trasforma in opera d’arte


In un piccolo spazio milanese, il Wanted Clan, ho visto uno dei film più interessanti del momento.

Da ottobre nei cinema, dopo il blocco della pandemia, “L’uomo che vendette la sua pelle (The man who sold his skin)“. Diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, è vincitore del premio Inclusione Edipo Re a Venezia e candidato agli Oscar 2021 per Miglior film internazionale; nel cast anche un’inedita Monica Bellucci.
La storia è ispirata all’opera d’arte Tim, realizzata dal creativo belga Wim Delvoye, che qui fa un cameo.

Sam Ali (Yahya Mahayni, miglior attore a Venezia 77 nella sezione Orizzonti), un giovane siriano, fugge dalla guerra lasciando il suo Paese per il Libano. Per poter arrivare in Europa e vivere con l’amore della sua vita, accetta di farsi tatuare la schiena da uno degli artisti contemporanei più controverso del momento in cambio di denaro e di un permesso di soggiorno per l’Europa.
Il corpo del giovane viene dunque trasformato in opera d’arte: un visto Shengen. Ma Sam si renderà presto conto che la sua decisione non significa conquistare la libertà. Nel momento in cui l’uomo assume lo status di “opera” si trasforma in un oggetto, perde la sua dignità; può essere comprato, esposto. La regista si interroga sul dilagare dell’ambizione, sullo sfruttamento delle disgrazie degli altri.

Il film resta comunque leggero: all’inizio sembrerebbe quasi romantico, in cui il motore di tutto è una storia d’amore impossibile. Sullo sfondo la situazione politica: la guerra, la Siria, il Libano, la volontà di spostarsi, di viaggiare per costruirsi un nuovo inizio.

Come spiega la regista, “Il film è un patto faustiano tra privilegiati e dannati. Sam Ali accetta di vendere la schiena al diavolo perché non ha scelta, ed entra così nella sfera elitaria dell’arte contemporanea. In preda ad un conflitto straziante, Sam cercherà di riconquistare la sua dignità e la sua libertà.”

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