“Horra” in italiano significa “Libera”. Ed è anche il nome della protagonista del nuovo libro di Sumaya Abdel Qader, “Quello che abbiamo in testa”.
È una giovane donna italiana di genitori giordani musulmani. Vive a Milano, da perfetta equilibrista tra due mondi – quello orientale di origine e quello occidentale dove è nata e cresciuta – e cerca di trovare una risposta ai suoi tanti dubbi. Il romanzo ci guida in una realtà di cui tutti parlano, ma che pochissimi conoscono. Un ritratto vivido e realistico di un’Italia contemporanea che non possiamo più ignorare.
Questo libro è uno specchio della tua realtà?
Sicuramente sì. Il marito e le figlie della protagonista sono molto simili ai miei familiari e le sfide che incontra sono un po’ quelle di tutte noi. Cerchiamo di farci strada in questo mondo e nei mondi che viviamo e che non ci riconoscono più. Per alcuni versi è un po’ autobiografico. Anche le esperienze che vive la protagonista sono riprese dalla realtà che mi circonda. Non c’è niente d’inventato, è tutto vero e reale.
La protagonista del tuo libro ha due figlie adolescenti, come te. Le tue ragazze portano il velo?
Ho una figlia di diciassette anni che porta il velo – per una sua decisione – e una di quindici, che non lo porta – anche lei per sua decisione. Due scelte diverse, quindi, ognuna con la propria motivazione e che noi familiari abbiamo pienamente rispettato. Le ragazze sanno bene che se volessero cambiare strada in qualsiasi momento avranno e hanno il nostro pieno appoggio e sostegno, anche se potrà capitare che non condivideremo tutte le scelte che faranno. Saranno le loro scelte e i loro percorsi e come tali dovremo solo rispettarli.
Quali sono le contraddizioni che affronti tutti i giorni?
Più che contraddizioni vivo delle difficoltà. Cerco di essere molto fedele e coerente a me stessa, quindi ciò che faccio, lo faccio perché ci credo e penso che sia giusto. Nella mia comunità c’è chi mi vede in contraddizione con alcuni valori o loro retaggi culturali. Mi vedono forse troppo emancipata e libera di fare e dire quello che mi pare. Quando dico di essere una femminista, mi guardano tutti un po’ straniti perché porto il velo e secondo loro il velo è “costrizione”. Io non mi sento affatto in contraddizione, anzi mi sento molto libera e consapevole di quello che faccio. Le difficoltà sono tante: riuscire a superare i retaggi culturali di una parte della mia comunità, superare i pregiudizi dettati dagli stereotipi, … sono tanti muri che separano me, e chi è simile a me, dai vari mondi che viviamo. Questa è la grande sfida: farci riconoscere nella nostra identità, personalità e unicità.
Il tuo ruolo (Sumaya è Consigliere al Comune di Milano n.d.R.) ti porta a contatto con molte persone. Hai mai subito attacchi razzisti perché porti il velo?
Io credo di essere vissuta in ambienti molto rispettosi. In generale se devo fare una somma di tutta quella che è stata la mia esperienza di vita, direi che sono stata rispettata, anche se non sempre compresa. Non è facile, naturalmente, poiché bisogna superare molti ostacoli, soprattutto culturali. Attacchi razzisti, qualche volta li ho subiti. Al lavoro, per esempio, durante un Consiglio Comunale una signora mi ha aggredito urlandomi: “maiale, torna al tuo Paese”; sui social (sappiamo quanto possano essere violenti) ho ricevuto minacce e insulti. Sono, però, sempre persone che non mi conoscono. Nel mio vivere quotidiano, nel mio rapporto con i colleghi, questo non c’è mai stato e ciò mi dimostra che il conoscere l’Altro abbatte le barriere.