di Andrea Boutros
Gherghes non sa di essere un ragazzino molto fortunato. Il solo fatto di essere lì, in quel piccolo centro di accoglienza genovese, a chiedere dei vestiti puliti e un contatto con il fratello, fanno di lui un miracolato. Un sopravvissuto.
E questo lo sanno molto bene gli assistenti sociali che lo hanno accolto, e che si sono subito preoccupati di stabilire un contatto con lui: prima facendosi capire a gesti, poi con google traduttore… fino all’arrivo di un mediatore culturale.
Non è stato facilissimo realizzare che quel “mediatore culturale” ero io.
Una telefonata: “è un copto appena arrivato, ha sedici anni, non parla una parola d’italiano…” e sono andato subito a trovarlo con padre Giovanni (parroco della comunità copta di Genova).
Probabilmente avranno raccattato il numero in uno dei registri della Curia genovese, che ci conosce molto bene per tutta una serie di ragioni (giornate per la pace, altre situazioni con egiziani copti rifugiati, momenti di preghiera comune…). Preferiscono parlare con “noi” seconde generazioni, o comunque con “noi” comunità egiziana copta, piuttosto che col mediatore culturale: hanno forse capito che abbiamo una marcia in più?
Gherghes ha sedici anni, viene da Abnub, profondo sud egiziano, e ci racconta la sua storia (che man mano traduciamo all’assistente sociale):«Sono stato una ventina di giorni in mare, nella stiva di una nave con un altro centinaio di migranti, senza vedere la luce del sole… ci davano solo un pezzo di pane e una fetta di manzo affumicato al giorno». La presenza del prete lo faceva sentire al sicuro e libero di raccontare anche i dettagli più sconvenienti, mentre io cercavo di non mostrarmi troppo turbato dal racconto per non metterlo a disagio.
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