Non so nulla di economia, e pure in matematica non ero un gran che alle superiori. Però non sono cieco. Faccio l’arabista e l’islamologo da 40 anni. Un po’ per vocazione, un po’ per i casi della vita, ho finito per seguire passo passo le vicende di alcuni immigrati arabi (anche cristiani) nella loro Odissea nel Bel Paese.
Vorrei renderne conto qui, per offrire una documentazione certamente parziale, ma a suo modo significativa di quel che siamo, come sistema, come Stato e come società.
Il primo è stato proprio un cristiano-cattolico arabo che si chiamava Giuseppe e veniva dalla Palestina. O meglio, la sua famiglia era palestinese, ma ormai dal ’48 in Egitto, senza alcuna nazionalità.
Come fosse riuscito ad arrivare in Italia resta un mistero, forse – essendo appunto cattolico – era stato aiutato dalle suore che me lo presentarono.
Un bravissimo ragazzo che pur senza alcun documento ha lavorato per ben 10 anni a Milano, in nero e senza contratto, come portiere di notte, per poter continuare a studiare di giorno. È riuscito intanto anche a prendere la patente di guida, facendo pratica con me nei pomeriggi del fine settimana (e anche questo è un po’ bizzarro e curioso). Intanto aveva inviato molte raccomandate con ricevuta di ritorno al Ministero dell’Interno, che però mai gli aveva risposto.
Ero al Viminale per altre ragioni e feci presente la sua intenzione di denunciarli. Trovammo la salomonica soluzione di riconoscergli almeno lo status di apolide. Per la cittadinanza il conteggio degli anni di permanenza sarebbe ricominciato da zero.
Incredulo, ma comunque felice, poté finalmente riabbracciare i suoi rimasti sulle rive del Nilo dopo un decennio di lontananza forzata.
Quando venni sapere che aveva uno zio in Germania, lo incoraggiai a fargli visita e, miracolo, in “UN SOL GIORNO”: ha trovato lavoro, gli è stato fatto un contratto, l’assicurazione sociale e gli è stato fissato un appuntamento all’Ambasciata tedesca di Roma per ritirare un visto per formazione-lavoro. Stupefatto si chiedeva se davvero avrebbe trovato il visto nella data indicata, timoroso di spendere invano i soldi del viaggio. Così telefonò per accertarsene e fu trattato con un po’ di durezza: “Se abbiamo detto che il visto sarebbe stato pronto per quella data, come mai ci telefona?”. Ormai da molti anni vive e lavora regolarmente lassù. Dalla Germania Dio ha chiamato un suo figlio. Con tanta gioia e un po’ d’invidia lo guardiamo noi, ‘della razza di chi rimane a terra’ (E. Montale)
Un altro, sempre egiziano ma musulmano, è in Italia da dieci anni anche lui. Non ha mai avuto un contratto di lavoro se non da me, come collaboratore domestico, e in una parrocchia dove ha fatto pulizie per un anno e mezzo dietro mia insistente raccomandazione. Ora ha un permesso di soggiorno in via di rinnovo, ma a parte la collaborazione con me, null’altro da nove mesi, neanche qualche ora e neppure in nero.
Più che naturale. Nei periodi di crisi si agevolano parenti e amici. Pur essendoci 50mila egiziani regolari nel milanese con circa 16 mila Partite IVA, ristoranti e agenzie di pulizie non assumono chi non sia dello stesso gruppo di famiglia, villaggio, provincia o religione.
Incensurato e gran lavoratore che ha girato mezzo mondo, è finito nel periodo sbagliato nel posto peggiore: a troppi fa comodo che gli immigrati restino in un limbo senza fine, magari meglio che dormano perfino in strada, così l’opinione pubblica si convincerà di un’invasione inesistente e molto ‘comoda’ per l’economia sommersa e morosa verso il fisco, finendo per orientare il voto in una determinata direzione.
L’ultimo, purtroppo, un altro egiziano che aiutava i profughi siriani a comprare biglietti ferroviari per altre mete europee, condannato a 11 anni di galera come “scafista” (!?!) mentre aveva fatto unicamente ciò che ci auguravamo qualcuno facesse: lui sempre identificato dalle forze dell’ordine senza che mai uno dei suoi assistiti lo fosse (presunti profughi irregolari) che ci saremmo dovuti tenere in base agli assurdi accordi di Dublino, ma in realtà facevamo finta di non vedere perché andassero altrove.
Il mio disagio come cittadino italiano è ormai alle stelle e nonostante i miei poveri sforzi con tutti e tre mi son trovato davanti a un muro di gomma dal quale si è potuto salvare solo il primo fortunosamente.
Dichiararci una Repubblica “fondata sul lavoro” è romantico, ma assai retorico. Quel che avveniva durante la mia adolescenza torna a ripetersi, son soltanto cambiate le vittime: italiani del sud allora, immigrati d’ogni tipo adesso.
Segnalazioni e pressioni su organi competenti dello Stato e su molte ONG anche d’ispirazione religiosa sono state prevalentemente vane.
Non ho più parole e per evitare di scadere in un turpiloquio degradante per me prima ancora che per i destinatari, mi taccio e lascio a voi trarne le inevitabili conseguenze.
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Paolo Branca è docente di lingua e letteratura araba e di islamistica presso l’Università Cattolica del Sacro cuore di Milano.