La storia comincia nel 1993. Crollato il muro di Berlino, la guerra fredda alle spalle e l’Unione Sovietica in pezzi, il presidente americano Bill Clinton decise che si poteva tranquillamente risparmiare sugli armamenti e avviò l’unificazione di studi e progetti finalizzati alla costruzione di aerei da combattimento in un unico programma chiamato JAST (Joint Advanced Strike Tecnology).
MY TRUTH – L’adesione al programma di sviluppo e costruzione degli F-35 più che rispondere ad una politica militare di prestigio, con ricadute economiche in termini di crescita, sembra essere una scelta “obbligata”, legata alla sussidiarietà dell’economia italiana nei confronti di quella americana.
In pratica, per mantenere bassi i costi di produzione e sviluppo, fu stabilita la realizzazione di un unico super velivolo da attacco in tre varianti con una base di partenza uguale: la versione convenzionale per l’USAF (United States Air Force, l’attuale Aeronautica Militare degli Stati Uniti), quella adatta per la Navy (la Marina Militare degli Stati Uniti) e la STOVL – dal decollo corto ed atterraggio verticale – destinata ai Marines.
Il programma modificò il suo acronimo in JSF, ovvero Joint Strike Fighter, e invitò le aziende costruttrici di aerei ad inviare le loro proposte. Tra tutte quelle presentate, ne furono scelte due: una della Boeing e una della Lockheed. Dopo un attento vaglio dei preventivi la spuntò la Lockheed con il modello F-35: un aereo di tipo stealth, ovvero difficilmente tracciabile dai radar.
Vogliamo ricordare che nel 2005 il 95 per cento del fatturato di Lockheed proveniva dai contratti con il ministero della Difesa o con altre agenzie federali, oltre che da governi stranieri. Solo per dare un’idea del giro d’affari si tenga presente che nel 2009 il fatturato totale valeva 45 miliardi di dollari.
La domanda sorge spontanea: che ci azzecca l’Italia con il programma di aerei da combattimento americani?
Ebbene questo prevedeva il coinvolgimento di altre Nazioni con tre livelli diversi di partnership e differente impegno economico, sia in fase di progettazione, sia in fase di realizzazione.
Nel 1996 l’Italia del primo governo Prodi aderisce al progetto con uno stanziamento di 1 miliardo di dollari posizionandosi a livello 2. Destra e sinistra votano entrambi a favore. La partecipazione viene riconfermata nel 1998 dal governo D’Alema, sempre con voto unanime, poi nel 2002 dal governo Berlusconi ed infine nel 2007 dal secondo governo Prodi, che pone la firma definitiva dell’accordo per partecipare anche alla fase di costruzione del velivolo. Ciò significa un impegno per l’Italia sino al 2046 con lo stanziamento di un secondo miliardo di dollari in più tranches.
Ma perché questa discesa in campo? Era proprio necessaria?
Secondo Giovanni Lorenzo Forcieri, sottosegretario alla Difesa del secondo governo Prodi, “rispondeva ai nostri indirizzi di politica estera e di difesa, nonché alle nostre scelte strategiche in materia di industria della difesa e di alta tecnologia”.
Ora, come si accordi con l’art. 11 della nostra Costituzione, la costruzione di velivoli da attacco ci sfugge proprio. Tra l’altro l‘Italia era già impegnata dal 1983 nel progetto europeo per la costruzione di un velivolo difensivo – l’Eurofighter Typhoon – con l’obiettivo di arrivare a quota 96 esemplari per un esborso totale di 6 miliardi di euro. Dunque, se volessimo farne un discorso prettamente economico, ci dovremmo chiedere quali siano i vantaggi derivanti dall’adesione al programma di sviluppo degli F-35, visto che i 7 miliardi di euro stimati nel 2007 sono diventati 15 (un singolo F-35 è infatti passato dai 55 milioni di dollari ad oltre 150 e la cifra sta salendo ancora). I difetti di costruzione sono grossolani e difficilmente eliminabili, perchè legati strutturalmente al progetto stesso (tra questi scarsa autonomia di volo, scarsa visibilità posteriore, lentezza nel virare, salire di quota e accelerare). E la condivisione di tecnologie militari all’avanguardia riguarda solo l’unico partner di livello 1: l’Inghilterra.
La risposta la prossima puntata.
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