Al Bistrot parisien in pochi li hanno visti; forse perché sono andati in onda un po’ tardi? Nelle settimane scorse, il canale televisivo Arte ha dedicato un’intera serata a tre documentari di approfondimento straordinari su Daesh e la nascita di uno Stato terrorista e sulla questione curda. Iraq, Siria e Turchia facevano da sfondo.
Il primo documentario andato in onda, “Daech, naissance d’un État terroriste” (52min), è del giornalista investigativo Jérôme Fritel e del suo collega Stéphan Villeneuve, partiti in Iraq nel novembre dello scorso anno per indagare su un’entità che rivendica uno Stato che non esiste ancora. Il documentario mostra, anche attraverso le interviste ad esperti di geopolitica, un’organizzazione terrorista molto ben strutturata, che controlla una regione grande come mezza Francia e sostiene l’economia locale, di cui la popolazione ha bisogno per vivere. Partendo dalla sua nascita – avvenuta in seguito all’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003 -, Fritel sposta l’attenzione sulle modalità di autofinanziamento di Daesh – con banche, in mano loro, che fanno transazioni internazionali e 10 milioni di dollari al giorno percepiti con la vendita illegale di petrolio – , analizzando la sua organizzazione militare e l’eco che ha avuto in Occidente. E’ proprio qui che molti musulmani sono stati sedotti dall’idea di creare uno Stato musulmano puro. Sentendosi esclusi, in Occidente, dal potere politico, hanno scelto di partire e unirsi all’organizzazione. Il 50% dei combattenti in Siria è straniero, il restante 50% è siriano. Una volta in Medio Oriente, alcuni di loro sono rimasti disillusi: si sono accorti che Daesh è sinonimo di massacro, estorsione, terrore, violenza contro donne e bambini e che il progetto di civilizzazione per cui sono andati a combattere, anche rischiando la vita, altro non è che un progetto di distruzione.
Il secondo documentario, “Encerclés par l’État islamique” (51min) è realizzato da Xavier Muntz, che gira un reportage sui combattenti curdi della Siria (YPG) e della Turchia (PKK), uniti agli yazidi, ai musulmani e cristiani per combattere lo Stato islamico. Sono imprigionati nelle montagne irachene di Sinjar, a ovest di Mosul, vicino al confine siriano. A combattere sono anche le donne, come una giovane parrucchiera che imbraccia il fucile e dice: “Il mondo deve capire la forza delle donne. Non siamo sottomesse”. Tra loro vi è anche una decina di stranieri, fra cui una volontaria israeliana e un giovane americano del Wisconsin, che viene intervistato: “Sono arrivato fino a qui per combattere a fianco del popolo curdo, perché questo non è solo un problema iracheno – spiega il giovane – ma piuttosto un problema umano”. I miliziani di Daesh si trovano a non più di 40/50 metri di distanza da loro, li circondano e non smettono di sparare. La telecamera di Muntz riprende i combattenti che difendono con grande coraggio il loro territorio e cercano di avanzare. Gira nelle strade appena riconquistate, entra nelle abitazioni e ritrae l’orrore dei villaggi devastati, abbandonati poco prima dagli jihadisti. Lo spettatore entra in guerra anche lui, e non può che restare sconvolto di fronte ai corpi di un uomo e di un bambino, probabilmente padre e figlio, legati e picchiati a morte e poi gettati come spazzatura sul pavimento di casa loro. Muntz si muove insieme ai combattenti, da una postazione all’altra, schiva i proiettili e ritrae la forza e il coraggio di uomini e donne, la cui vita, di fronte alla causa, diventa meno importante. Sono uniti e ben coordinati, anche grazie alle comunicazioni via radio. Uno di loro viene ferito gravemente. Muntz continua a riprendere ed è proprio lì che immediatamente lo spettatore ha paura e si rende conto delle scarse condizioni di sicurezza e dei rischi estremi che corrono in queste montagne, isolati e lontano dal mondo “reale”. L’inchiesta verrà riproposta su Arte giovedì 26 marzo alle 3.30.
Il terzo documentario, “Öcalan et la question kurde” (52min), è realizzato da Luis e Sarah Miranda. Un lavoro di grande ricerca sulla questione curda: un popolo diviso tra Iran, Iraq, Turchia, Siria e il cosiddetto Kurdistan. L’autore sceglie di ripercorrere la storia, punta il dito contro il presidente turco Erdogan, responsabile del destino incerto dei curdi presenti nel suo Paese. Miranda sceglie di mettere in primo piano Adullah Öcalan, leader del PKK e nemico numero uno della Turchia, colui che potrebbe diventare il mediatore essenziale per garantire l’equilibrio geopolitico nella regione. Il focus del documentario è la questione curda, quella di un popolo senza uno Stato. In questo contesto è proprio il ruolo di Daesh ad essere determinante: grazie all’organizzazione terrorista i curdi iniziano ad uscire dall’oscurità e a farsi finalmente notare dalla comunità internazionale. La questione curda contribuisce a ridefinire i rapporti di forza tra i Paesi del Medio Oriente, gli Stati Uniti e la Russia.
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