Mahdia (Tunisia). – Per una volta, studi e ricerche sono unanimi: intergire con un animale calma l’ansia, trasmette calore affettivo, aiuta a superare gli stati di tensione; e prendersene cura fa sentire utili, sprona a responsabilizzarsi. Vale a qualsiasi età, non solamente per i bambini. “Non sentendosi giudicate, le persone si rilassano, sono più disponibili ad aprirsi; il che facilita l’approccio medico, soprattutto con i pazienti non collaborativi”, dice Slim Annabi, neuropsichiatra anche infantile, studi e pratica a Parigi, già dirigente dell’ospedale universitario Razi di La Manouba (Tunisi), supervisore delle attività di Pet Therapy nel Centro di Mahdia, voluto e realizzato da Gabriella Incisa di Camerana.
I cavalli sono da sempre i più utilizzati in questo settore
“Sì, perché grazie a una postura verticale e a una visione dall’alto, facilitano il senso di equilibrio e di libertà. Primo a intuirlo fu Ippocrate, intorno al 400 a. C.: mettere in sella soldati che erano stati feriti in battaglia riduceva di molto il calo del tono muscolare. A fine 1800, in Francia, il dottore Chessigne prescrisse specificamente l’equitazione ad alcuni pazienti neurologici. Nel 1952, alle Olimpiadi di Helsinki, le gare di dressage furono vinte a Lis Hartel, una giovane danese che era stata colpita dalla poliomielite e cavalcando era riuscita a riacquistare completamente l’uso delle gambe. L’anno successivo, in Norvegia, sorse il primo centro di ippoterapia”.
Poi, di fianco ai cavalli, i cani
“Cominciarono a essere utilizzati sporadicamente, negli Stati Uniti e in Francia, per alleviare la depressione e altre patologie collegate alla Prima Guerra Mondiale. A fine anni ’50 la scoperta, casuale come non di rado accade. Un giorno, lo psichiatra statunitense Boris Levinson aveva dimenticato di fare uscire dallo studio il suo cane, Jingles; entrò un bambino autistico, e subito il cane gli si avvicinò, lo fiutò, lo leccò e lui, fino a quel momento bloccato, cominciò a parlargli. Da allora Jingles fu integrato nelle sedute con quel bambini e con altri”.
E fu l’inizio della Pet Therapy
“Lo stesso Levinson, nel 1961, elaborò le prime basi teoriche. Da allora, grazie al contributo di grandi professionisti quali Montagner, Condoret, Beiger, Hubert Lallery e Renée di Lubersac sorsero diverse associazioni anche in Francia, Canada e altrove. La zooterapia può offrire un sostegno importante anche a detenuti, tossicodipendenti, portatori di menomazioni intellettuali e/o fisiche ecc; di recente se ne è scoperta l’utilità in case di riposo, ospedali, comunità di ricupero”.
In caso di malattie mentali gravi?
“Anche. C’è un antecedente, a fine XVlll secolo; inorridito dalla crudeltà degli ospedali psichiatrici ingesi, il dottor Willima Tuke propose, per tentare di riconquistare questi pazienti a una condizione minimamente umana, di affidare loro conigli e volatili perché ne avessero cura. Nella seconda parte del XX secolo, i coniugi americani Samuele ed Elisabeth Corson, psichiatri, per primi adottarono le teorie di Levinson; negli anni ’70 la Pet Therapy entrò nelle carceri e nei manicomi criminali.
Personalmente, in 7 anni di servizio in manicomi criminali – con autori di reati anche molto pesanti, come omicidi in stato di delirio, posso dire che la presenza e la cura di animali da compagnia contribuiscono nettamente a ridurre l’isolamento e l’agitazione ansiosa, sovente equivalgono a una conferma di appartenere ancora alla comunità umana. E di più: spesso si riesce anche a ridurre le dosi quotidiane di medicine ansiolitiche o antideliri”.
Le maggiori difficoltà?
“I costi (solamente la generosità di alcuni privati e aziende ha di recente consentito a un gruppo di bambini poveri del Sahel tunisimo di seguire, a Mahdia, alcune sedute di zooterapia), i pregiudizi (in Tunisia e altrove si insegna ai bambini a diffidare degli animali), gli improvvisatori (che allestiscono centri totalmente inutili, tipo escursioni nella natura con tanto di nidi di ape o stagni con le carpe)”.
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