Egitto… eppur si muove

Ancora una volta in Egitto, mia seconda patria adottiva… casuale? naturale? provvidenziale? Dio solo lo sa …

L’idea di un mondo islamico omogeneo e compatto è del tutto lontana dalla realtà. Me ne sono accorto proprio mentre preparavo la mia tesi al Cairo.

Avevo scelto come argomento i libri scritti negli anni ’50 da Khalid Muhammad Khalid, un deciso riformista in linea con la rivoluzione socialisteggiante di Gamal Abd el-Nasser. Essendo ancora in vita, andai a intervistarlo a casa sua, sull’isola di Roda, dove si trova il celebre e antico Nilometro.
Khalid Muhammad Khalid aveva appena pubblicato un libro in cui proponeva una visione assai diversa da quella espressa quarant’anni prima. Gli insuccessi e le delusioni della retorica panarabista lo avevano avvicinato alle posizioni dei Fratelli Musulmani, così com’era avvenuto anche ad altri liberal-progressisti.

Fu una sorpresa che rese ancor più interessante la mia ricerca e constatai che il nodo irrisolto fra tradizione e modernità non si poneva soltanto fra intellettuali di diverso orientamento, ma all’interno di ciascuno di loro.

Tre anni dopo, ebbi modo di intervistare Muhammad Ahmad Khalafallah, pioniere di un’esegesi coranica aggiornata che però non aveva per nulla mutato le sue tesi pur controcorrente. Nello stesso Paese, nella medesima città e a pochi chilometri l’uno dall’altro due pensatori stavano su fronti opposti. Niente di nuovo sotto il sole, come suol dirsi, ma ben distante dalla banalizzazione dei media occidentali, abituati a far di ogni erba un fascio.

Le diverse correnti del pensiero musulmano contemporaneo rimasero a lungo il mio campo di studi e così pubblicai nel 1991 Voci dell’Islam moderno: il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, (prefazione di M. Borrmans, edizioni Marietti), in cui presentavo una quarantina di diversi orientamenti, anche dalle aree islamiche predominanti che sono ben più a Oriente rispetto alla cosiddetta regione MENA (Middle East and North Africa). Negli anni successivi, le cose si complicarono ancor più col sorgere del jihadismo prima di al-Qaeda e poi con l’Isis; pur con linguaggi e stili diversificati, fino a degenerare in forme di estrema violenza, le questioni di fondo rimanevano le stesse.

Al di là dei suoi aspetti tecnici, la discussione in atto riflette varie posizioni che coinvolgono una questione di capitale importanza: col mutare delle condizioni sociali e culturali quale parte della tradizione islamica e delle istituzioni musulmane classiche vanno considerate ancor valide e quindi mantenute? Quali aspetti sono invece modificabili e attraverso quali procedure?

Per rispondere a queste domande è necessaria una riconsiderazione del processo evolutivo che nei primi secoli della storia dell’Islam ha condotto alla formazione delle sue dottrine e delle sue strutture fondamentali per poter riprendere, in forme adatte ai nostri tempi, il fecondo lavoro di quelle prime generazioni di credenti. L’evoluzione, tuttavia, non è stata solo negativa, basti pensare al grande fenomeno delle relativamente recenti ‘primavere arabeche tante speranze avevano suscitato, ma che altrettante delusioni sembrano registrare al fin della vicenda.

Per evitare di ‘gettare via il bambino insieme all’acqua sporca’, come si suol dire, vale la pena di ricordare che le parole d’ordine della grande mobilitazione popolare, soprattutto giovanile e attuata mediante i moderni social-networks, sono state quelle di ‘dignità’, ‘libertà’ e ‘giustizia’.

In un certo senso, quasi smentendo ogni ragionevole previsione, abbiamo visto le masse arabe muoversi in nome di princìpi e valori che ritenevamo estranei o comunque lontani dalla sensibilità di popolazioni in gran parte musulmane.

Anche l’assenza di slogan anti-occidentali od ostili all’imperialismo, al neocolonialismo e al sionismo hanno sorpreso non pochi osservatori, e chi ha potuto seguire più da vicino e in lingua originale il dibattito che si è aperto in quei giorni entusiasmanti ha avuto occasione di constatare che esso verteva anche su neologismi altamente significativi. Il concetto di laicità, infatti, comunemente espresso in arabo col termine ilmàniyya (da ‘ilm, ‘scienza’, o da ‘alam, ‘mondo’), fortemente dipendente da concezioni appunto razionaliste o secolariste tipicamente europee e un po’ ‘datate’, è stato sostituito dal temine madaniyya (unito a dawla, cioè ‘stato’) che significa ‘civile’, non soltanto contrapposto a ‘militare’, ma anche a ‘clericale’ o ‘religioso’ in senso confessionale.

Ph. Silvia Dogliani

Ciò spiega, tra l’altro, anche la decisa partecipazione sia dei cristiani arabi sia dei musulmani non radicali ai sommovimenti che hanno condotto rapidamente alla caduta di vari regimi autoritari che sembravano inamovibili ormai da molti decenni.

Il fatto che, specialmente in Tunisia e in Egitto, si sia passati alla vittoria di movimenti islamisti alla prima tornata elettorale sembrerebbe smentire quanto fin ora esposto, ma in realtà si tratta di una contraddizione che non sfugge agli stessi interessati e che sta pesantemente influenzando la fase di transizione in cui questi Paesi sono entrati.

Se, infatti, è stato relativamente facile unire un vasto fronte anti-regime, non altrettanto automatico si è rivelato il percorso necessario affinché nuove formazioni politiche potessero organizzarsi adeguatamente per rappresentare un’alternativa credibile.

Ne hanno approfittato, fino a un certo punto giustificatamente, quei movimenti già esistenti e radicati nel territorio che hanno a lungo contestato la legittimità dei governi in carica in nome della religione musulmana, da essi considerata un modello onnicomprensivo e quindi anche politicamente valido a sostituire una classe dirigente incapace e corrotta.

Dopo i catastrofici esperimenti di ‘esportazione della democrazia’ manu militari in Afghanistan e in Iraq, si è avuta una volta di più la conferma di quanto sia inadeguato pensare che bastino elezioni libere a creare automaticamente un vero Stato di diritto dove mancano una classe media e ‘corpi intermedi’ quali partiti, sindacati, media e associazioni indipendenti a far da tramite fra la società civile e le istituzioni.

Altrettanto deludenti sono stati i vari regimi cosiddetti islamici (dall’Arabia Saudita al Sudan, dall’Iran khomeynista al Pakistan e all’Afghanistan talebano) che non hanno risolto alcun problema pur non essendo affatto meno peggio delle tanto deprecate cricche deposte dalle rivolte.

Addebitare queste carenze all’Islam in quanto tale è alquanto sbrigativo e rischioso. Sono piuttosto strutture autoritarie e tendenze antropologiche a favorire il dispotismo, oltre a ben evidenti alleanze d’interesse che hanno finora impedito a molti Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente di svilupparsi (e non soltanto economicamente) verso forme più equilibrate e bilanciate in campo socio-politico e istituzionale.

Leggi anche: Egitto, dove essere italiani è un plus

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Paolo Branca (Milano, 1957) è docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica di Milano. Laureatosi a Ca’ Foscari (Venezia) 40 anni fa con una tesi in Islamologia è specializzato nelle problematiche del rapporto Islam-mondo moderno. Nel 2011 ha fatto parte del Comitato per l’islam italiano presso il Ministero degli Interni e il Card. Angelo Scola lo ha nominato responsabile delle relazioni coi musulmani dell’Arcidiocesi di Milano durante il suo mandato. Ha pubblicato tra l’altro Voci dell’Islam moderno, Marietti, Genova 1991, Introduzione all’Islam, S. Paolo, Milano 1995, I musulmani, Il Mulino, Bologna 2000, Il Corano, Il Mulino, Bologna 2001, Yalla Italia! Le vere sfide dell’integrazione di arabi e musulmani nel nostro Paese, Edizioni Lavoro, Roma 2007 e, con Angelo Villa, La vita è un cetriolo… alla scoperta dell’umorismo arabo, Ibis, Como/Pavia 2020. Ha tradotto il romanzo del premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz, Vicolo del Mortaio, Milano, Feltrinelli, 1989. Su FocusMéditerranée tiene la rubrica “The Mediterranean I know”.

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