Le rovine di Camilla Alberti

Rovine-2, Camilla Alberti (2019-119x9x42h-cm)

Da settimane le immagini che ci arrivano dall’Ucraina sono soltanto quelle di bombardamenti, mostri, guerra e rovine. E proprio nelle rovine trova ispirazione Camilla Alberti, classe 1994. L’abbiamo conosciuta durante una private view nel nuovo spazio condiviso da MLZ Trieste, Michela Rizzo di Venezia, Zanin Z20 di Roma e Marco Frittelli di Firenze, evento correlato a Miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano che si è recentemente conclusa.

Le sue tele nascono da foto scattate ad architetture abbandonate nella periferia di Londra, dove il tempo ne ha ridisegnato la struttura e ha permesso la colonizzazione vegetale. In un’altra opera di grandi dimensioni, troviamo la rielaborazione di una palude abitata da un mostro. Per l’artista, il mostro non è una creatura da sconfiggere, come nella mitologia, ma un protagonista della storia.

Il mostruoso è quello che varca i confini, diventando il simbolo della ricerca dell’artista, soprattutto nelle sculture. “Unbanding creatures” sono le creature dello scioglimento, fatte con materiali di recupero, oggetti ritrovati, abbandonati, scarti industriali, tracce di vite altrui ricomposte in questi corpi organici che hanno un’identità mostruosa, perché costruite con rovine contemporanee, o frammenti di rovine.

In tutti i lavori dell’artista le rovine sono intese come spazi potenziali, spazi che nel nostro immaginario sono abbandonati, solitari, proprio perché non hanno padroni che ne regolano i confini. Sono spazi di costruzione attiva, dove più specie collaborano insieme e ne costruiscono continuamente la superficie, sono quindi esempi di coesistenza.

Anche nei ricami, ritroviamo la figura del mostro. Qui la ricerca di Camila Alberti è focalizzata su una tipologia di fungo, il Cordiseps, parassita degli insetti che ne modifica il corpo: il confine del corpo viene quindi completamente abbandonato e trasformato, diventando parte di un paesaggio, di un ecosistema.

I lavori dell’artista sono fatti a ricami industriali su tessuto. I genitori Alberti hanno un ricamificio tessile e fin da bambina Camilla ha vissuto in un ambiente creativo. Riutilizzando macchine che solitamente sono usate per fare loghi, ha realizzato composizioni più complesse.
L’idea è partita dopo una residenza fatta a Trieste nel 2019, dove era chiesto ai creativi presenti di ripensare e analizzare l’impatto delle nuove tecnologie – soprattutto internet – sulla nostra società. Attraverso una ricerca con un taglio biologico, il filo conduttore del lavoro di Camilla Alberti, l’artista ha cercato di capire come poter utilizzare al meglio internet attraverso la conoscenza di una connessione molto più antica, quella tra le piante e i funghi.

“Tra le due specie c’è un network sotterraneo – spiega Alberti – che mette in comunicazione popolazioni di alberi a distanza di chilometri; molto simile alla nostra rete internet”. La connessione biologica è però radicata nel mondo, lo processa e lo costruisce in continuazione, mentre la rete internet, come l’abbiamo pensata, crea una sovrastruttura, quindi diversifica i mondi. A questa consapevolezza si è aggiunta la conoscenza che il linguaggio digitale nasca come embrione dal telaio jaquard. L’associazione delle tematiche di ricerca alle quali stava lavorando e la tecnica del ricamo industriale è stata naturale.

Qual è la scommessa di Camilla Alberti oggi?
Far sì che attraverso l’arte si costruisca un immaginario che possa portare le persone verso un nuovo modo di stare al mondo, cioè cambiare la nostra relazione con quello che ci circonda, impiegare quindi il virtuale in modo funzionale al reale.

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