Una piazza occupata, una mappa parlante, una rivoluzione che interroga chiunque la attraversi. Il libro di Marina Petrillo “Canto la piazza elettrica” ci parla di un progetto di giustizia sociale e di riconquista dello spazio pubblico, un’idea di città nella città che contagia il mondo intero. E proprio oggi, con una guerra alle porte dell’Europa, la piazza diventa anche spazio di solidarietà – con manifestazioni per la pace, veglie e proteste contro la guerra – di unione e di condivisione.
Dai primi racconti dei giovani egiziani su Twitter nel 2011 ai reportage sul campo, piazza Tahrir al Cairo diventa un laboratorio di comunità, avanguardia digitale e grande storia d’amore. Una linea temporale che si svolge e riavvolge, un libro che si fa e si disfa per dieci anni, mentre la speranza di cambiamento viene soffocata dal nuovo dittatore. Ma la piazza perduta, narrata in questo saggio lirico con un coro di voci, non smette di emanare la sua luce, ricordandoci quel che sarebbe potuto accadere o che un giorno accadrà.
Qual è stata la scintilla e dove hai preso l’ispirazione per scrivere questo libro?
Nel 2010, quando lavoravo già da tanti anni a Radio Popolare e avevo (e ho) una formazione radiofonica, sono stata sollecitata da alcuni miei colleghi a capire il funzionamento di Twitter, che non era il monumento gigantesco di oggi. All’epoca, era un social molto meno frequentato e si era ancora agli albori del lavoro giornalistico. Per me fu una scoperta straordinaria, perché ne ho colto l’aspetto radiofonico, cioè le voci che lo popolavano, delle fonti da scoprire, da curare, da collegare, da verificare, da accompagnare con ricerche. Continuando a studiare questo social, ho visto che c’erano giornalisti che lo utilizzavano già da tempo, e per alcuni è diventata poi una vera e propria professione. Tra questi colleghi il più bravo è un americano, Andy Carvin, che lavorava per la radio pubblica statunitense e aveva anche una formazione da blogger. Era un grande sperimentatore che da sempre aveva seguito la globosfera araba, soprattutto i giovani blogger tunisini, marocchini, egiziani, palestinesi e di tutto l’arco del Mediterraneo. Si era appassionato alle cose che questi giovani raccontavano e a come, in quel periodo, si stavano organizzando. Carvin era stato anche al vertice annuale dei blogger panarabi che si svolgeva in una città diversa ogni anno, con il suo punto d’incontro a Tunisi. Le nostre vite si sono incrociate quando sono andata a lavorare negli Stati Uniti e lui è diventato il mio capo. Allo scoppio della cosiddetta “Primavera araba”, Carvin lavorava già su questi temi e fece un utilizzo molto importante dei social media.
Il 25 gennaio del 2011, primo giorno della Rivoluzione in Egitto, usavo già Twitter. I diciotto giorni che ne seguirono, mi cambiarono la vita. Attraverso i giovani rivoluzionari ho scoperto un Paese che credevo di conoscere e che invece non conoscevo affatto. Quei ragazzi avevano un progetto che non riguardava soltanto una rivendicazione di giustizia sociale contro la povertà e di democrazia, ma anche di un futuro diverso. Questo racconto diventò il mio impegno preponderante: lavoravo su Twitter quattordici ore al giorno. Ho continuato anche dopo la caduta di Hosni Mubarak e, ancora oggi, vado avanti, anche se con meno impegno. Ho iniziato poi a recarmi in Egitto, conoscendo le persone, entrando in contatto con gli attivisti che avevo seguito da lontano e che mi guidavano e aiutavano a capire come muovermi. Sul campo ho percepito anche la dimensione peculiare di questo tipo di manifestazione: una rivendicazione di un popolo oppresso non soltanto dalla povertà, dalla corruzione e dalla dittatura, ma anche dalla scarsa cittadinanza nello spazio pubblico, dalla censura di riprendersi fisicamente un pezzo di città. E questo elemento, dal 2011 in poi, viene mutuato da decine e decine di altre città nel mondo. Io volevo raccontare proprio questo: come si replicava questo modello e perché e su che cosa ci interrogava. La rivoluzione egiziana è diventata terribilmente dolorosa, per questo ho deciso di scrivere un libro, per raccontare la storia di una piazza occupata.
Tu dici che il tuo è un tentativo di fissare nel tempo le voci straordinarie che quella piazza ha pronunciato e creato. Quali sono le voci che hai raccolto?
Le voci raccolte non le abbiamo cercate, si sono imposte. Era una gioventù molto particolare; nel 2011, aveva tra i venti e i trent’anni. Insieme a loro c’era anche tutta la generazione che aveva fatto le rivolte del pane, le manifestazioni nel 2009 e le rivolte femministe del Cairo (una sorta di borghesia un po’ più anziana che li fiancheggiava e li accompagnava). Le voci di cui parlo nel libro, circa 100mila tweet, sono giovani laici, che hanno studiato. Alcuni erano andati a lavorare all’estero e avevano deciso di tornare quando è scoppiata la Rivoluzione. Fanno parte di quella che viene definita “la futura classe dirigente”. Peccato che in Egitto ciò non si è verificato e questi giovani ora sono in esilio o in prigione.
Accanto a loro c’erano i blogger e gli studenti delle Università del Cairo. Parlavano varie lingue, twittavano in arabo per organizzarsi tra loro e poi in inglese per raccontare a noi occidentali, per trovare solidarietà e avere un dialogo con la gioventù di tutto il mondo. Accanto a loro, c’erano anche tanti giovani della Fratellanza musulmana, quindi molto diversi da loro. Questa vicinanza ha richiesto un grande sforzo di mediazione ideologica. Arrivavano dalle campagne anche numerose persone che si trovavano in Piazza Tahrir per la prima volta, perché volevano vedere cosa stava succedendo. C’era il grande movimento delle fabbriche di Mahallah (fabbriche di ceramica, di pasta, … tutte di proprietà dell’esercito che si arricchisce sulle spalle di questi operai), c’erano gli ex sindacalisti delle organizzazioni chiuse da Mubarak, che cercavano di ricostruire i sindacati. Su Twitter le voci erano dei giovani, ma in piazza accanto a loro c’era l’Egitto. Senza differenze di ceto, religione o altro, nascevano anche accese discussioni politiche, cosa a cui noi non siamo più abituati.
Come è cambiato l’Egitto dai giorni di piazza Tahrir ad oggi?
Si è “mostrificato”. È diventato l’esatta proiezione dei peggiori incubi dei giorni della Rivoluzione. Non è tornato com’era prima, ma è peggiorato. I giovani, e soprattutto i giovani della Fratellanza musulmana, avevano avuto l’esperienza del carcere o ne avevano sentito parlare in famiglia. La censura di Mubarak era indiretta, era diventata culturale; le persone cercavano di fare la loro vita, ignorando il fatto di vivere in un Paese dove esisteva un solo partito e un Presidente che si auto rieleggeva.
Dopo la Rivoluzione, si è assistito alla violenza del contraccolpo: i fedeli al vecchio regime si sono ripresi quello che ritenevano fosse loro; il potere economico è ritornato in mano all’esercito, tutto con grandissima violenza, quasi con vendetta. Alcuni degli apparati, come quello giudiziario ad esempio, hanno perpetuato nei confronti degli attivisti delle vere e proprie ritorsioni, facendo pagare a questi giovani il solo aver pensato di poter cambiare le cose. Questa recrudescenza è andata di pari passo con l’evidenza che fosse l’esercito a guidare le sorti del Paese, mentre prima c’era una parvenza di leadership borghese. Ora tutto appare evidente. Mohamed Morsi, il Presidente eletto democraticamente, per quanto inadeguato, venne rimosso dall’esercito e dallo stesso uomo che diventerà Presidente a sua volta. Tutto questo con una strage, con l’uccisione di mille attivisti dei Fratelli Musulmani che protestavano pacificamente con un sit-in, nella completa indifferenza dell’Occidente. Gli attivisti con cui parlo ora mi dicono che la paura è diventata oggi molto più concreta che non ai tempi di Hosni Mubarak perché ci sono strumenti di sorveglianza maggiori, ad esempio il controllo dei social media. Quello che è accaduto a Giulio Regeni ne è la prova, ed è solo uno dei migliaia di casi di spariti torturati e uccisi dalla Security Force egiziana. Gli strumenti di repressione sono talmente forti che questa paura è diventata veramente presente nella vita di tutti i giorni, non si può evitare di pensarci. Da quella esperienza, però, non si torna indietro. È talmente radicale e contagioso quel cambiamento che poi viene ereditato. E questa trasformazione arriva fino a noi, che questa storia l’abbiamo seguita solo come spettatori. È impossibile vivere come se la Rivoluzione non ci fosse mai stata.
In questo momento, una nuova piazza Tahrir è possibile?
Non al Cairo. In questo momento ci sono altre situazioni simili. Pensiamo al Sudan, dove è in corso una battaglia per avere uno Stato democratico, contro il golpe e contro il loro stesso esercito, a mani nude, esattamente come hanno cercato di fare gli egiziani. Quell’idea di piazza sopravvive e si moltiplica. Tahrir in questo momento sarebbe impossibile perché il Presidente Al-Sisi ha fatto costruire finti monumenti, aiuole ben curate, ha riverniciato tutte le transenne, ha rifatto le facciate dei palazzi, ha cancellato dalla piazza ogni traccia della Rivoluzione. L’unico segno è questo monumento ai martiri, che è più un esercizio retorico, perché tutto il resto del comportamento di Al-Sisi è contrario a quello che avrebbero voluto i martiri. C’è però un sobbollire della società egiziana ad ogni livello; lo abbiamo visto nel 2017 e poi nel 2019 con particolare vigore dopo l’ennesimo caso di corruzione.
Le persone hanno tentato di tornare in piazza. Oggi, è vietato manifestare e questo è un elemento fondamentale dello scontro impari tra i manifestanti e le forze di sicurezza. Chi manifestava non si è fermato; ne sono scaturiti un’ondata di arresti impressionante, tra cui quello di uno dei leader della Rivoluzione araba. Oggi chi manifesta è consapevole delle conseguenze, cosa che al momento della Rivoluzione nessuno poteva sospettare. Credo che quando al Cairo si raggiungerà una massa critica sufficiente, le cose esploderanno di nuovo. Uno dei grandi timori degli attivisti è che stavolta non sarà una sollevazione pacifica. Infatti, una delle ragioni per cui la Rivoluzione è fallita e per cui molti sono finiti in prigione (ci sono oltre 70mila detenuti politici) è perché le persone hanno rifiutato la guerra civile, hanno scelto di non imbracciare le armi. In futuro, però, è difficile dire che sarà ancora così. Si stanno accumulando dolore, rancore, lutti e sofferenze in ogni famiglia. Questo dovrà trovare una sua dimensione e non credo sarà il perdono.