Roma – Direttamente o indirettamente collegati ai rivolgimenti climatici in corso, si intensificano alluvioni, siccità, fenomeni atmosferici estremi, inquinamento, con le conseguenti distruzioni di coltivazioni, riduzione di mezzi di sostentamento per esseri umani e animali, calo di posti di lavoro, aggravamento delle disuguaglianze, avvio (o ripresa) di conflitti territoriali.
“Un contesto invivibile nel quale non puoi fare altro che decidere di partire, costi quel che costi, magari salendo su uno dei barconi che attraversano il Mediterraneo“, dice Carolina Facioni, sociologa e dottore di ricerca in metodologia delle Scienze Sociali, Research Assistent in Istat, interessata agli studi di previsione (Futures Studies), alle tematiche relative alla qualità della vita e alle emergenze demografiche.
Prevenzioni possibili?
Investire in quelle zone, affinché rimangano o diventino vivibili. Attualmente, alcune nazioni economicamente potenti privilegiano aree geografiche particolarmente fredde. Pechino ad esempio, la cui presenza in Siberia si avviò fin dagli anni ’90, dimostra crescente interesse verso le risorse di quel territorio. Certo, l’idea che il riscaldamento climatico possa essere anche un affare non contribuirà a risolvere il problema che comunque, essendo globale, anno più anno meno si estenderà ovunque.
Uno dei valori occidentali e specificamente europei è il pluralismo, la (faticosa) coesistenza di opinioni, fonti, culture, verità che sopravvivono pur se in conflitto. Ognuno di noi, all’interno di uno stesso territorio, è chiamato a scegliere quotidianamente tra diverse possibilità di identificarsi in differenti posizioni ideologico/culturali e/o aggregati socio-culturali, non di rado in conflitto tra loro. Cosa succede quando nelle nostre società irrompono delle comunità immigrate i cui riferimenti mentali, etici, sociali, storici, non di rado cozzano contro i nostri?
La dialettica tra culture può (e deve) esserci; essenziale è il confronto. Il nodo sta nella maturità e nell’equilibrio. Nel rispetto. Non si tratta di imporre nulla a nessuno, da nessuna delle parti, fermo restando il dovere per chi arriva di rispettare le leggi locali e, per il Paese ospite, di assicurare ai migranti condizioni di vita decenti. Nelle grandi città, però, le zone in cui le culture entrano in contatto sono generalmente i quartieri più disagiati, le periferie: e il disagio diviene spesso brodo di coltura per alienazione, conflitti, attriti, violenze di vario tipo.
Se non si riuscirà a ridurre il riscaldamento globale, e parallelamente a elaborare modelli di sviluppo adeguati, uno studio della Banca Mondiale prevede che gli spostamenti potrebbero coinvolgere più di 140 milioni di persone entro la prima metà del nostro secolo (per lo più provenienti da regioni dell’Africa subsahariana, Asia meridionale e America latina)
Un rivolgimento immane: un qualche risvolto positivo dovrà pure esserci …
La crisi del clima potrebbe, paradossalmente, persino essere un’opportunità, nel senso di una possibile scoperta della solidarietà. Prima di arrivarci però, temo che vivremo un lungo periodo di crisi: nuove povertà, impoverimento ulteriore dei già poveri, possibili conflitti sociali, scontri di culture, fenomeni di radicalizzazione (ideologica e/o religiosa) anche in Paesi dove finora non si sono notati. In questo, la rete avrà la sua responsabilità. Per uscire da una crisi di questo tipo ci vorrà del tempo. Il momento peggiore penso non sia ancora arrivato. Tuttavia, credo che a un certo punto la forza delle cose imporrà di non vedere più ‘l’altro’ come un nemico.
Ci renderemo finalmente conto che l’unica salvezza sarà salvarci tutti insieme. Aiutandoci.
Le opinioni qui espresse da Carolina Facioni non riflettono necessariamente quelle del suo Istituto di appartenenza.