Inizia ufficialmente oggi in Egitto il periodo “dopo Mubarak”, con l’apertura dei seggi per le prime elezioni parlamentari dopo oltre sette mesi dalla caduta dell’ex raìs. Ma le proteste e le polemiche non si placano in Piazza Tahrir e non solo lì. In Marocco gli islamici moderati hanno vinto le elezioni del 25 novembre scorso e il Paese è pronto ad avviare le riforme per abbattere la corruzione e la disoccupazione. Il 27 novembre scorso la Lega Araba ha approvato un pacchetto di sanzioni economiche contro la Siria, isolando il governo del Presidente Bashar al-Assad responsabile della repressione nel Paese. Sono sempre più numerose le notizie che arrivano dal mondo arabo. Le rivolte, quelle già passate e quelle attualmente in corso, hanno prodotto e continuano a produrre rapidi cambiamenti e sostanziali incognite nell’area mediterranea. Cambiano gli scenari, cambiano gli equilibri internazionali e le relazioni euromediterranee. Scopriamo come.
“L’intervento della Nato ci sarà anche in Siria!” azzarda Patrycja Sasnal durante la conferenza internazionale After the Arab Spring, what season awaits the Mediterranean? organizzata il 17 novembre scorso dall’ISPI e dalla Rappresentanza a Milano della Commissione Europea in collaborazione con EuroMeSCO. L’analista del Polish Institute of International Affairs sorprende i presenti e, senza farsi intimidire dagli sguardi increduli del pubblico, prosegue con la sua “teoria degli aerei”: “Mentre Egitto, Tunisia e Libia stanno decollando, Siria Yemen e Bahrein seguono una rotta incerta. Non si sa ancora dove atterrerà l’aereo tunisino, ma per ora è nel “right track”. Non conosciamo l’identità del pilota di quello libico e dove esattamente sia diretto, ma nel Paese non manca la ricchezza e si intravede una luce in fondo al tunnel. Il velivolo più problematico è senza dubbio quello egiziano, vola basso: l’esercito fa il doppio gioco, l’economia è in tremende condizioni e sei mesi sono troppo pochi per scrivere la Costituzione; l’ipotesi più realistica è che si arrivi ad un pluralismo senza democrazia!”.
Secondo Sasnal nei Paesi arabi il declino del potere occidentale è sempre più evidente. Brasile, Sudafrica, Australia, Cina e Turchia sono le potenze emergenti che hanno in questi Paesi un’influenza sempre maggiore. Come dovrebbe comportarsi l’Occidente in questa fase storica? “Integrare l’Islam politico – risponde Sasnal -, che non è necessariamente negativo e che potrebbe assumersi la responsabilità della transizione. Sarebbe questa la nostra opportunità per costruire dei legami più saldi e sani”, conclude l’analista.
Dalla proiezione sul futuro proposta dall’analista polacca si ritorna nuovamente al passato, per comprendere le ragioni delle rivolte arabe: “La crescita di lungo periodo accomuna i Paesi arabi, così diversi tra loro” spiega Luigi Ruggerone, responsabile dell’ufficio Rischio Paese di Intesa Sanpaolo, professore alle Università Cattolica e Bicocca di Milano e coautore, con Rony Hamaui, del libro Il Mediterraneo degli altri. “Nell’ultimo mezzo secolo la combinazione “crescita della ricchezza” ed “esplosione demografica” è stata difficile da sfruttare. Se la crescita demografica fosse stata accompagnata da un incremento degli investimenti di capitale fisso, certamente il risultato sarebbe stato positivo. Ciò però non è avvenuto: questi Paesi, con sistemi bancari diversi dai nostri, hanno avuto una scarsa integrazione nell’ambito della finanza e dei mercati internazionali. E’ vero, la scolarizzazione è aumentata, ma poco sappiamo della qualità delle scuole. Le nuove generazioni ben educate sono senza prospettive di occupazione e questa è senz’altro la grande componente delle rivoluzioni. E’ probabile che la democrazia si affermi in quei Paesi dove le rivolte sono state brevi e determinanti, come è avvenuto in Tunisia e, forse, in Egitto”, conclude il Professore.
Arturo Varvelli, ricercatore ISPI, propone invece una riflessione sulla Libia del dopo Gheddafi e mette a confronto il leader libico con quelli egiziano e tunisino: “Diversamente da Ben Ali e da Mubarak, Gheddafi non ha lasciato alcuna eredità. Era lui il distributore della rendita, non c’erano istituzioni tra il Colonnello e la popolazione”. Nonostante la sua fine, il futuro della Libia, e della sua identità nazionale, resta ancora incerto. Anche Varvelli è d’accordo con l’analista Sasnal sull’importanza del ruolo che avrà un Islam politico: “La Libia – afferma il ricercatore – potrebbe rimanere unita solo all’interno di una scatola chiamata “Islam”.
Ma Islam può assumere significati non sempre positivi agli occhi di un Occidente impreparato ed ignorante: incertezza, limitazioni, ignoto, paura. Come affidare dunque un ruolo politico ad un attore che non ci dà garanzie? Come abbattere i pregiudizi e puntare sul dialogo? Il ruolo dell’Europa diventa fondamentale. L’Unione Europea deve avvicinare le due sponde del Mediterraneo e assumere il difficile compito di mediatore.
“L’attenzione verso il mondo arabo è molto limitata”. Ad affermarlo è Rony Hamaui, amministratore delegato di Mediofactoring Intesa Sanpaolo e professore di economia monetaria all’Università Cattolica di Milano. A differenza dall’Europa, il Medio Oriente non ha conosciuto un processo di democratizzazione. Secondo il Professore Hamaui l’assenza di materie prime nei Paesi arabi, di istituzioni e di sviluppo economico e la frammentazione etnico sociale sono solo una parte delle ragioni di questa anomalia. Inoltre, il mondo arabo non è omogeneo, non solo da un punto di vista culturale, ma anche linguistico e religioso. “Dopo i fallimenti della Conferenza di Barcellona nel 1995, di quella di Marsiglia nel 2000 e dell’Unione per il Mediterraneo istituita nel 2008, non è certo questo il momento più propizio per l’Europa di aiutare i Paesi arabi nell’evoluzione delle istituzioni e nella crescita economica. Non siamo più attraenti!”.
E allora, quale ruolo può assumere oggi l’Europa? “Puntare sulla cultura e sulla comprensione”, risponde il professore Hamaui senza esitare. “Promuovere le libertà e mantenere la stabilità politica”, aggiunge Khalifa Isaac, docente del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università del Cairo e della Freie Universitat di Berlino. Poi, con un’attenzione particolare all’Egitto, prosegue: “Si dovrebbe puntare sulla differenziazione, con un programma di progetti mirati e specifici. L’Europa dovrebbe stanziare fondi e inviare degli esperti che possano agire da guida durante il periodo di transizione. Inoltre, dovrebbe intervenire nel conflitto israelo-palestinese”, conclude la professoressa egiziana.
Un approccio decisamente storico è quello di Tarek Osman, consigliere politico per i Paesi MENA e BERS, che ripercorre gli ultimi 150 anni di storia egiziana e lancia alcune proposte: “L’Europa ha già affrontato situazioni simili e può offrire molto in termini di modelli da imitare, ma non da imporre. Stop alla formula ‘denaro contro immigrazione’. L’Europa deve tener conto anche di una grande fetta di professionisti arabi molto evoluti, che spesso vengono dimenticati. Inoltre – conclude Osman – non esiste un unico Islam politico, ma ci sono tante entità e divisioni. La paura europea è esagerata!”.
Cosa può fare dunque l’Europa in questo momento? I fallimenti del passato dovrebbero aiutare a non ripetere gli stessi errori, i suggerimenti per il futuro potrebbero essere presi in considerazione e applicati con estrema cautela. Ma da un modello di riferimento bisognerà pur partire. E quale Paese meglio della Turchia, che ha saputo coniugare i principi islamici con quelli democratici, potrebbe essere il modello di riferimento più giusto?
“La grande novità è che il dibattito sul modello turco, e il laicismo dello Stato turco, è nato nei media e negli ambianti politici del Paesi arabi”, sostiene Valeria Talbot, ricercatrice ISPI. “Vi è grande ammirazione verso un Paese che ha saputo mantenere una stabilità politica, una crescita economica, un’autonomia dalle scelte degli alleati occidentali e che è stato capace di trovare spazi di influenza, inserendosi negli ambiti lasciati vuoti da altri attori internazionali”. Talbot fa subito l’esempio della Tunisia e dell’Egitto, dove la Turchia non ha esitato ad appoggiare le rivolte (in Egitto Erdogan ha firmato nuovi contratti e aumentato gli investimenti economici), e della Libia e Siria, dove gli interessi strategici ed economici sono emersi per la prima solo dopo l’intervento della Nato, e per la seconda dopo le sanzioni imposte dalla Lega Araba. Da questo scenario ne esce una Turchia abile nello sfruttare la popolarità nel mondo arabo, un attore “Mediterraneo” con interessi nel Mediterraneo.