DoveStiamoAndando? A ricuperare la fotografia come testimonianza

Emanuele Satolli

ISTANBUL – Fotogiornalista di punta per testate fra le più prestigioseTime,The Washington Post, Bloomberg Businessweek, CNN, Corriere della Sera, La Repubblica, InternazionaleEmanuele Satolli ritiene che “soltanto un linguaggio nuovo, capace di umanizzare il dolore degli altri, potrà contrastare il processo di assuefazioni alle visioni violente”. Un’intuizione verificata nel 2015 in Centro America, lavorando a un servizio sui migranti verso gli Stati Uniti: “Chiesi loro di aprire gli zaini e di permettermi di fotografarne il contenuto. Cosa si erano portati con sé? Chi scappa, lascia una vita e una casa normale, come le nostre. Noi immaginiamo persone e contesti diversi, lontani, ma non è vero: fuggono delle persone come noi…in medesimi frangenti faremmo esattamente quel che loro fanno”.

Le fotografie furono accolte con curiosità, interesse, forse suscitarono anche barlumi di empatia. Che la testimonianza privilegi le vittime, è ovvio e giusto. Sarebbe possibile documentare anche l’odio che attraverso il mondo produce tante, tali e differenti vittime?
“Sì, ma sarebbe un lavoro molto lungo, molto approfondito. Ascoltare, magari per anni, rabbie, disagi, paure, sconfitte; percorrere in lungo e in largo zone seviziate da difficoltà economiche, disoccupazione, povertà che all’improvviso rompono vite, devastano”.

Però non sta necessariamente nell’angoscia economica, secondo me, la responsabilità delle catene di montaggio dell’odio. Abitando tu ormai da tanto tempo in questa città (che è l’ottava meraviglia del mondo), probabilmente non hai avuto modo di percepire il livore, i furori, l’intolleranza che c’erano/ci sono in Italia. Da noi, le catene di montaggio dell’odio vengono quotidianamente oliate con professionalità. In Grecia la crisi è stata ben più tremenda – pensionati che si uccidevano a Salonicco, gli ospedali di Atene senza medicine – e tuttora si vive mediamente peggio che da noi, eppure non sono dilagati/non dilagano il rancore, la rabbia, la voglia di distruzione generalizzata che senti invece in Italia. Del resto, Alba Dorata non arriva al 10%. Gli anticorpi evidentemente funzionano: da loro.
“Occorrerebbero tanto tempo e tanta energia per rappresentare certi ambienti e le loro evoluzioni. Bisognerebbe frequentare luoghi, persone, gruppi, osservarli nel quotidiano, sollecitare racconti e ricordi, soprattutto continuare a chiedere e a chiedersi i perché delle scelte. Ecco, fare probabilmente dei ritratti di chi olia le catene di montaggio dell’odio”

June 2015 – Huseyin Toprak casts his vote in a polling station in Diyarbakir, two days after he was wounded during a bomb attack on the pre-election rally of the pro-Kurdish Peoples’ Democratic Party (HDP) where 4 people lost their life.

Il fotogiornalismo come testimonianza.
“Dopo il non facile passaggio al digitale e successivamente alla post produzione – quando in alcune occasioni si finiva con alterare la realtà – credo ci sia stata e sia tuttora in corso un’inversione di tendenza che privilegia un realismo anche forte; l’evento e la storia devono sapere parlare di per sé, eventuali correzioni devono rimanere molto sobrie.
Nessuna sapienza tecnologica (incluso il photoshop, che pure è utilissimo, importante quanto la camera oscura per l’analogico) deve farci deflettere dal riproporre fedelmente la realtà. Tra fotogiornalisti e pubblico c’è un patto, una convenzione: la mia foto ti mostra quanto è accaduto. Il senso del nostro lavoro è documentare. Da sempre”

Le nuove tecnologie facilitano o complicano?
“Da un lato con i low cost puoi agevolmente spostarti, le attrezzature diventano sempre più piccole e agili, le stesso utilizzo dei cellulari accresce le possibilità. Dall’altro lato tutto diventa più complicato, pericoloso, soprattutto muoversi in territori dove non c’è controllo da parte di autorità locali – sto pensando all’Afghanistan, alla Libia – fa lievitare i costi per la sicurezza. Per farti un esempio: nel 2017 io ho seguito la battaglia di Mosul, certamente il rischio era alto, però la presenza dell’esercito iracheno ci garantiva una certa sicurezza. Andare a Mosul oggi può essere ancora più pericoloso, sia per le cellule dormienti dell’Isis che ogni tanto attaccano, sia perché la presenza dell’esercito è ovviamente diminuita una volta terminata la battaglia”

E Gaza? Hai in mente altri reportage?
“Mi piacerebbe rappresentare la popolazione stretta fra potenze che si fanno la guerra. Di Hamas, i Gazawi sono in parte sostenitori in parte ostaggi. Che la risposta di Israele a ogni protesta sia sproporzionata è un dato obiettivo, visto l’enorme, costante divario fra numero di vittime palestinesi e israeliane. Egualmente obiettiva è la constatazione che, nelle recenti manifestazioni, molti feriti e morti palestinesi avrebbero potuto essere evitati se, per esempio, Hamas non avesse deciso di spingere alla protesta tutti, compresi ragazzi molto giovani.
Serve un alto numero di morti da mettere sul piatto delle trattative?”

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