La rivoluzione araba nell’era obamiana



Il mondo arabo è in rivolta. Tutto è cominciato in Tunisia, durante il week-end nero dell’8 e 9 di gennaio, quando migliaia di cittadini sono scesi in piazza a protestare contro Ben Ali. Da qui, l’onda lunga si è propagata rapidamente nei Paesi vicini: Egitto, Bahrein, Yemen e ora in Libia, ormai nel caos e con centinaia di morti nelle piazze. Moti destinati certamente a cambiare il mondo, gli equilibri internazionali e la vita di milioni di cittadini. E non solo di questi Paesi.

Il seme di queste rivolte, però, è stato piantato ben prima. Il 4 giugno 2009, quando Obama tende le mani agli islamici e pronuncia lo storico discorso all’Università del Cairo durante il quale pone le basi di quello che, vero o meno, la Storia gli riconoscerà come il germe della rivoluzione democratica del Medio Oriente. Non sono solo buoni propositi e sani principi. All’America conviene: le sfide ora si sono spostate verso il Pacifico, verso la Cina che cresce galoppando, senza pensieri e senza nemici, sola nella sua grandezza incontrastata. E’ qui che si devono investire risorse, umane e materiali, verso le nuove frontiere, perché lasciare tutto al gigante con gli occhi a mandorla sarebbe un errore strategico grave e irreversibile per il mondo occidentale.

Il mondo arabo, custode del petrolio in via di esaurimento, non può più assorbire tutte le energie. E i vecchi raìs mediorientali – a cui l’America, nonostante le belle parole, si è saldamente appoggiata nell’ultimo trentennio – appaiono ormai asfittici, stanno perdendo la presa su Paesi con percentuali dirompenti di giovani, sempre più moderni e desiderosi di partecipare al banchetto tecnologico globale.

Ma ora c’è da chiedersi: una transizione democratica moderata nel mondo arabo è possibile? O rischia di sfuggire di mano e scivolare nel radicalismo islamico? Molti hanno suggerito di continuare così. Perché lasciare il certo per l’incerto? Ma altri hanno insistito che regimi incartapecoriti, invisi alla maggioranza della popolazione di ogni strato sociale, imbalsamati in riti superati e vetusti non davano affatto garanzie di stabilità. E alimentavano, paradossalmente, l’estremismo, che trae preziosa linfa da povertà, ignoranza, esclusione sociale, assenza di prospettive, di sogni.

Ben Ali è stato il primo a cedere a Tunisi. In fondo, un esperimento. Un Paese piccolo, relativamente moderno, sotto influenza francese, a due passi dall’Italia, contenuto, controllabile, senza particolari risorse naturali, non certo strategico.
I militari hanno gestito la crisi della piazza con prudenza, hanno accompagnato il Presidente sulla via della Mecca, hanno affidato la transizione ad un Governo di Unità Nazionale che comprende nuove figure, sempre accanto alle vecchie facce, che per ora non cambiano.

Più dirompente e piena di incognite la subitanea caduta di Mubarak. Il faraone egiziano che controlla il canale di Suez, importanti risorse e 80 milioni di arabi, al 90% musulmani. Paese chiave nella regione, l’Egitto rappresenta un partner imprescindibile per l’Occidente: rapporti diplomatici stabili e – dietro alla retorica per le masse – sostanzialmente buoni con Israele, importante baluardo in chiave anti-iraniana, attore non marginale nel Corno d’Africa e in Sudan, membro chiave della Lega Araba, primario partner commerciale di USA ed Europa, mediatore nel conflitto israelo-palestinese, con decisa antipatia per i “cattivi” di Hamas.
Queste e molte altre le ragioni per preoccuparsi del futuro dell’Egitto. Eppure la protesta monta e Obama abbandona platealmente il vecchio rais al suo destino. E’ la fine di una lunga, e tutto sommato stabile amicizia.

E’ la rivoluzione “dolce” dell’era obamiana. Non più cacciabombardieri e missili scud ma Facebook, Twitter e iPod.
Forse non tutti hanno notato un cablogramma uscito con Wikileaks, dove si parlava proprio di questo: i giovani arabi, milioni di giovani sull’orlo della frustrazione, chiedono di partecipare al mondo globale, interconnesso. Di navigare in internet, scaricare musica, bere coca-cola e vestire Nike. Guardano le tv satellitari. E non solo Al Jazeera. Non sono più solo fellain ignoranti, servi della gleba. Sono l’avanguardia di una classe media moderna.

L’Occidente deve dare risposta a questo anelito, pensa il Dipartimento di Stato americano. Rispondere con film, prodotti, benessere, consumismo, un bel po’ di sana superficialità, nuovo oppio delle menti e dei popoli, necessario per distogliere dal torpore, ma anche dalle ben più pericolose derive fondamentaliste, a cui porta la disperazione e l’assenza di alternative.

E’ il discorso di Obama al Cairo. Tutto è cominciato da lì. Forse nessuno se n’era accorto. Il cammino passa per la piazza. Cadono le teste dei raìs, ma gli apparati restano. Ed ora vedremo “nuovi gelsomini” in Yemen, Bahrein, forse anche in Algeria, e poi, chissà, in Siria e altrove. Forse si salveranno le monarchie “costituzionali” moderate di Giordania e Marocco (qualche incertezza per quest’ultimo), già avviate verso una autonoma, per quanto lenta, modernizzazione.

E resteranno alcune incognite come il Sudan, dove è in atto un processo di secessione guidata, di cui nessuno parla, tra il nord musulmano ed il sud cristiano, ricco di petrolio e vicino all’Etiopia.
A quel punto non resterà che occuparsi di Pakistan ed Afghanistan, ed in quest’ordine, perché i problemi del secondo hanno solide radici nel primo.

E poi qualcuno dovrà dare una sistemata all’anarchia somala, in pericolosa deriva fondamentalista e nuovo tempio del terrorismo.

Ma “transizione ordinata” verso dove? Speriamo verso governi genuinamente democratici e aperti, alla turca, dove non prevalgano, per inattaccabile elezione democratica, gli afflati radicali islamici orientati all’imposizione della sharia (Gaza docet). Sarà questo ora il compito di Obama e dell’Occidente. Speriamo di essere all’altezza e di non aver sbagliato i conti. E intanto la rivoluzione continua…

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