Dopo 11 anni sotto le bombe, oggi i siriani si trovano sotto le macerie. Anche la natura non li ha risparmiati. Il sisma di magnitudo 7.8 che il 6 febbraio scorso ha attraversato il confine tra Turchia e Siria è stato il più devastante del secolo e non ha provocato solo una tragedia umanitaria (ad oggi si contano oltre 18.000 vittime), ma ha generato un vero e proprio terremoto geopolitico.
La zona di confine colpita dal sisma vede coinvolti molteplici attori: dal lato turco ci sono sia i profughi siriani presenti nel Paese sia il popolo curdo, acerrimo nemico dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan; dal lato siriano, ci sono gli oppositori al regime del presidente Bashar al-Assad, anche definiti “ribelli” o “turchi islamici estremisti”. Dettagli per nulla trascurabili, che hanno prodotto serie conseguenze in termini di aiuti umanitari (interni ed esterni) e di equilibri geopolitici.
Gli aiuti umanitari sono da sempre veri e propri strumenti politici. Il Paese che li fornisce, oltre ad essere spinto da uno spirito di solidarietà è anche mosso da interessi economici strategici. La chiave sta proprio nel capire chi li fornisce e perché e come si muovono le forze governative dei Paesi colpiti.
In Turchia è il Presidente Erdogan a coordinare polizia, pompieri e squadre di esperti. Ma il tempo è tiranno e lui ne ha poco per dimostrare di essere in grado di gestire con tenacia questa emergenza, soprattutto prima delle elezioni presidenziali di maggio di quest’anno (salvo rinvii).
Le critiche non mancano, sia da parte della popolazione, che lo rimprovera di essersi attivato tardi e male, sia dall’opposizione, che non perde occasione per dimostrare la sua debolezza. Gli avversari lo accusano di non aver fatto la prevenzione promessa dopo il terremoto del 17 agosto 1999.
Il governo di Ankara, attualmente concentrato in questa emergenza, teme che attori esterni possano approfittarne della situazione per trarne vantaggi. Ma il terremoto può essere anche l’occasione per la riconciliazione: la solidarietà tra Damasco e Ankara è un primo passo per ripristinare i rapporti commerciali che c’erano prima della guerra; gli aiuti inviati dall’Egitto sono una mossa verso il riavvicinamento con la Turchia, quelli provenienti dall’Ucraina un modo di aiutare per essere aiutati.
La Siria, in guerra dal 2011, vive il dramma nel dramma. Oggi è suddivisa in tre regioni: quella governativa e predominante, sotto il regime di Bashar Al-Assad, dove sono presenti forze governative, milizie regolari e forze armate paramilitari che rispondono agli ordini della Russia e dell’Iran; quella nel nord-ovest, fuori dal controllo governativo e sotto l’influenza turca; e quella più ridotta a nord-est, controllata invece dalle forze curde appoggiate dagli Stati Uniti.
La regione siriana colpita dal sisma è quella a nord-ovest, all’interno della quale i civili sotto le macerie sono proprio quelli che Damasco definisce “ribelli” e si domanda cosa “convenga” fare. A supportare il governo di Damasco sono principalmente la Russia, che vuole mantenere il suo sbocco nel Mediterraneo, e l’Iran. Gli aiuti sono arrivati anche da Algeria, Emirati Arabi Uniti, molto vicini alla Russia, Iraq, India, Pakistan, Giordania, Libia. Ciascuno si muove con un obiettivo, politico o militare, e nulla è lasciato al caso.
In Siria ci sono due protezioni civili: una controllata dal governo centrale e una, i White Helmets (caschi bianchi) che si definisce organizzazione non governativa ed è finanziata principalmente dall’Occidente (Stati Uniti e Regno Unito in particolare).
Il valico di frontiera di Bab al Hawa è l’unico passaggio per inviare gli aiuti umanitari in Siria. Oggi, i soccorsi sono ostacolati dall’ostruzione della Russia e del regime di Assad agli aiuti internazionali e dalla Turchia, che ha chiuso i confini per evitare l’arrivo massiccio di nuovi sfollati siriani.
I civili sono abbandonati a loro stessi e a testimoniarlo sono proprio loro, attraverso i social.
Il reporter Ibrahim Zeidan (@izeidan88) si reca davanti a Bab al Hawa per mostrare con un video postato su Twitter che “gli aiuti non ci sono”.Il fotografo Mousa Zidane (@Zidane084) conferma che “la missione di salvataggio continua ad essere una battaglia solitaria mentre il mondo resta a guardare”.
Il fotogiornalista Fared Al Mahlool (@FARED_ALHOR) dopo aver seppellito i suoi cari, dalla provincia di Idlib racconta a Muhammad Idrees Ahmad, associate editor di New Lines Magazine il freddo di un inverno rigido e il dolore, aggravato dalla spietatezza del regime che, poche ore dopo il terremoto, ha bombardato le aree colpite. Poi, posta su Twitter fotografie drammatiche di sopravvissuti e vittime del terremoto e chiede aiuto al mondo: “Non chiediamo mai più del necessario. Oggi il nostro bisogno è più grande di quanto non sia mai stato”.