“Ferite di parole”, il nuovo libro di Ivana Trevisani e Leila Ben Salah

Ferite_di_parole_640Il ruolo delle donne nelle Rivoluzioni dei Paesi arabi raccontato da due donne: Leila Ben Salah, giornalista italo-tunisina, e Ivana Trevisani, psicoterapeuta e antropologa. Le autrici di Ferite di parole hanno raccolto le voci di donne che sono state testimoni e protagoniste: storie singole e collettive, ricordi, racconti e sensazioni. Abbiamo incontrato Ivana Trevisani alla presentazione del libro nella Libreria Azalai di Milano.

Qual è stato il motivo che vi ha spinto a scrivere questo libro e perché avete scelto di dar voce solo alle donne (delle “Rivoluzioni”)?
L’input è nato in occasione della presentazione di un mio precedente libro, “Il velo e lo specchio”, al Festival del Mediterraneo ad Ancona (circa due anni fa). Siccome il volume trattava delle donne nel mondo arabo musulmano, le domande del pubblico vertevano naturalmente sulla presenza femminile nelle Rivoluzioni (se c’erano, se c’erano state e che ruolo avevano avuto). E’ nato quindi spontaneo pensare ad un lavoro a quattro mani con Leila Ben Salah, che in quell’occasione presentava il mio libro. Perché proprio solo le donne? Perché di loro non c’è pressoché traccia nei “media ufficiali”, a parte qualche spot.  Ci sembrava una grossa mancanza di informazione, visto che invece, come poi abbiamo sviluppato nel libro, le donne sono state molto presenti e molto attive.

“I media internazionali con la sicurezza della loro presunzione etnocentrica affermano che le donne nelle piazze chiedono diritti. Parlano di e per noi, in nostro nome, ma non ascoltano le nostre voci in libertà dalle loro catene interpretative, forse c’entrano anche i diritti, ma incidentalmente, non sono prioritari. No, noi chiediamo e aspiriamo a qualcosa di più importante per le nostre esistenze dei diritti!” , emerge l’insoddisfazione di queste donne verso i Media occidentali, che raccontano di masse anonime e cancellano l’identità e le differenze di chi ha popolato le piazze delle “Rivoluzioni”.
Qual è la verità? Cosa chiedono concretamente queste donne?
Direi che è evidente! Purtroppo delle donne musulmane si parla solo quando si deve discutere la questione del velo, o quando ci sono episodi di violenza, quando cioè ci sono delle immagini eclatanti. Poi, però, si dice poco del quotidiano e dell’attivismo continuo di queste donne. Prova ne è che, ogni volta che manifestano, non ne giunge voce. Ultima, in ordine di tempo, la protesta del 12 febbraio scorso, che è stata di altissima risonanza a livello internazionale. Indetta dalle donne egiziane contro le molestie e le violenze utilizzate come strumento politico per “rimandarle a casa”, aveva avuto una fortissima adesione e coinvolto anche altri Paesi. Avevano addirittura risposto all’appello anche le donne tailandesi. Ma sui media, almeno quelli italiani, non si è fatto cenno. E’ quindi lecito sentirsi trascurate o mal lette?

La paura dell’Occidente è quella di un progressivo avanzamento dei partiti di matrice islamica al potere. E il vedere le donne in piazza, quasi tutte velate, aumenta questo timore. A pagina 112 del libro leggiamo “L’Occidente politico ed economico potrà aiutare il mondo arabo in trasformazione se riuscirà a non imporre i propri progetti politici e finanziari alle popolazioni dell’area e rinuncerà a paventare sistematicamente l’avvento del terribile pericolo islamico”.
Lei cosa ne pensa?
Sono pienamente d’accordo, anche perché mi pare che soprattutto le donne stiano dando una grande conferma di quanto siano impegnate nell’evitare questa deriva di radicalismo islamico. Lo sono state con il famoso articolo 21 (la donna viene definita come complementare all’uomo NdR) inserito nella nuova Costituzione tunisina: il 13 agosto del 2012, la giornata della donna in Tunisia, ci furono delle manifestazioni oceaniche in tutto il Paese al punto che Ennahda, il partito di impronta islamica ancora saldamente al potere all’epoca, fu costretto a ritirare questo nuovo articolo. Per quanto riguarda l’Egitto, invece, è vero che a volte la presenza di molte donne velate ha stupito lo sguardo occidentale.  La questione del velo, però, ha talmente tante sfaccettature che è difficile liquidarla con una adesione radicale all’Islam. Per alcune donne è una scelta spirituale, in altri casi, purtroppo, viene imposto. Adesso, mi diceva un’amica egiziana, molte donne lo stanno togliendo. Va anche detto che lì c’era stata anche una sorta di moda nel velarsi; poi è diventato anche un segno identitario ed infine, con la Fratellanza che veniva considerata fuori legge, l’appartenenza religiosa attraverso un segno distintivo era diventata anche motivo di orgoglio, di protesta e di affermazione di un sé che veniva negato. Dopo, il popolo egiziano, visto cosa hanno portato i giorni di governo della Fratellanza e anche, appunto, il tentativo di deriva islamica, ha risposto con una sollevazione, che è stata collettiva e di massa.

Le Rivoluzioni (nei Paesi arabi) sono, naturalmente, diverse da Paese a Paese. Vorrei chiederle, invece, cosa le accomuna?
Le accomuna il grido che ricorreva in tutte, e cioè “vita, libertà e dignità”. Non era dettato solo da una questione meramente economica. La parola che io sentivo ovunque e che risuonava nelle piazze era appunto “dignità”. In Tunisia, ad esempio, apparentemente la donna godeva di una certa libertà “laica”, come sostiene una delle donne nel nostro libro: “… eravamo donne libere, ma non eravamo cittadine”. Mancando questo, non c’era nemmeno la possibilità di esprimere il proprio dissenso, il proprio malessere … Ricordiamo che i luoghi dove le Rivoluzioni sono nate erano Paesi governati da dittatori.

Le protagoniste del vostro libro sono tutte giovani? Con quale criterio le avete selezionate?
No, non sono tutte giovani, anzi, una delle tesi che sosteniamo è appunto quella della trasversalità generazionale. Certo non sono moltissime quelle di una certa età, ma ci sono anche loro. Non c’è stato un vero e proprio criterio di selezione, ma gli incontri si sono sviluppati da relazioni che avevamo stabilito con delle donne, e che poi si sono allargati come il sasso nello stagno, per cui ci hanno fatto conoscere altre persone. Naturalmente, quando si instaura un rapporto di fiducia, il racconto è molto più aperto. Ciò che ci interessava era proprio che queste donne ci raccontassero con serenità le loro esperienze.

Che aria si respira adesso? Le donne che avete intervistato – con le quali immagino siate ancora in contatto –  si sentono tradite da ciò che è seguito alle Rivoluzioni?
Non si sentono tradite, perché già al momento delle nostre interviste ci dicevano che avrebbero continuato a vigilare sugli avvenimenti. Erano consapevoli che le Rivoluzioni non sono un evento, ma un processo, e quindi un cammino che prevede delle battute di arresto e delle deviazioni … ed è quello che stanno facendo. Purtroppo, soprattutto in Tunisia, l’aria è pesantissima; però la prova è che tutti i giorni loro sono in presidio davanti al palazzo del Governo.

Quale futuro intravede per queste giovani donne e quale futuro, invece, si aspettano loro?
Io amo unirmi al loro sguardo positivo. Non si aspettano certamente tempi facili, però, nonostante questo, il poter esprimere le loro opinioni è già un primo passo. Il loro orizzonte è luminoso, ma è l’orizzonte. Il cammino (non lo negano né se lo nascondono) ha sempre delle trappole che possono aprirsi davanti a loro.

 

 

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