Islam in love, un libro di Rania Ibrahim contro i pregiudizi

“Islam in Love” è il titolo del romanzo che racconta le seconde generazioni, esattamente quelle viste e vissute dalla sua autrice, Rania Ibrahim, giornalista, moglie e madre di quattro bambini.

Il libro (pubblicato da Jouvence nella collana Finzioni) è la storia d’amore tra Laila, diciottenne anglo-araba di fede musulmana e Mark, biondissimo ragazzo inglese figlio del leader di un partito dell’estrema destra xenofoba nella città di Dover, Inghilterra. Saranno il sesso e l’amore a fonderli indissolubilmente contro ogni pregiudizio.

Abbiamo incontrato l’autrice in occasione della presentazione del libro a Milano.
Questo lavoro è frutto della tua voglia di andare contro ogni pregiudizio?

Avevo iniziato questo libro sotto forma di appunti, fino a quando l’anno scorso in poco tempo e di getto ho scritto tutto il testo. Era un periodo che avevo voglia di dire ciò che pensavo, ero lontana dai social da un po’ di tempo e quindi è stato anche una sorta di sfogo. Non avevo intenzione di pubblicarlo, l’ho fatto leggere quasi per scherzo al Professor Paolo Branca, il quale è stato subito propenso alla pubblicazione. Secondo lui raccontava qualcosa di cui pochi hanno parlato, soprattutto donne e soprattutto musulmane. E’ un libro sicuramente contro i pregiudizi, i luoghi comuni e tutto quello che precede qualunque discussione quando si parla di Islam.

Mi sembra che tutti siano “portatori sani di conoscenza dell’Islam”; magari nessuno ne sa nulla, ma tutti ne parlano. E nel calderone metto anche i musulmani (sia chiaro). C’è un’esposizione eccessiva delle religioni, mi sembra che si parli solo di quello. Io credo che la fede dovrebbe rimanere nella sfera privata di una persona. Penso che chi ne parla troppo è perché ha poca fede.

Quali sono le difficoltà più grandi che deve vivere una ragazza di seconda generazione? Secondo me la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita. Non è semplice, perché da un lato c’è comunque “qualcosa” che ancora non ti accetta, nel senso di uno Stato di cui non ti senti mai parte integrante. Saranno un po’ anche i colori, come ti poni e anche la carta d’identità, quella non la puoi cambiare. E poi il giudizio della comunità di cui fai parte e nella quale vivi: l’essere giudicati dagli altri come qualcosa che non va come dovrebbe andare.
Le difficoltà sono tante: dalla scelta del marito, al non poter andare a studiare in un’altra città. Sono piccole cose per le donne d’Occidente, ma per una seconda generazione che non deve confrontarsi solo con i propri genitori, ma anche con un’intera comunità, sono grandi conquiste e necessitano di tanto coraggio. Nell’ultimo periodo, però, le cose stanno lentamente cambiando e vedo una maggiore apertura.

Rania Ibrahim. Ph. Elisabetta Massera

Anche tu sei una seconda generazione, qual è la tua esperienza personale?
La mia esperienza personale è diversa perché i miei genitori non hanno dato molto credito alla comunità egiziana, hanno sempre fatto di testa loro. A mio parere, però, inconsciamente temevano un po’ il giudizio delle persone, soprattutto qui in Italia, dove il nucleo è più ristretto e quindi ci si conosce di più e ci si giudica anche di più.

Io comunque ho sempre fatto ciò che ritenevo giusto, anche se questo mi ha portato e mi porta tanti guai. A volte penso che, se avessi avuto il velo, per me sarebbe stato più semplice: sarei stata facilmente identificabile e forse anche più serena. Il fatto di essere definita una musulmana “moderata”, poi, mi da enormemente fastidio, perché penso subito che chi lo fa è perché divide i musulmani in moderati e terroristi.

Anche i miei correligionari mi infastidiscono perché non vedo in loro il vero Islam: non è un velo, non è una barba, non è l’andare a pregare in moschea. Vedo tanta ipocrisia e falsità. Io mi sento di essere tante cose: araba, musulmana, italiana, napoletana come mio marito. La contaminazione di cui sono parte mi piace e sono sempre alla ricerca delle mie tessere mancanti.

Oggi si parla tanto di “Ius Soli”, la nuova legge sulla cittadinanza in discussione al Senato. Tu cosa ne pensi?
Io credo che, al di là del fatto giuridico e politico, sia una realtà con cui per forza bisogna fare i conti. Non ci si può tappare gli occhi ancora a lungo. Molti mi dicono che lo Ius soli non è una priorità. Sicuramente non lo è, ma è una necessità e non si potrà negare a lungo, soprattutto se pensiamo alle persone che sono nate qui in Italia, vogliono vivere, lavorare, sposarsi e fare figli qui. Perché negare loro dei diritti? Perché negare loro la possibilità di crearsi un’identità? Queste persone non vengono riconosciute nel Paese in cui sono nate e non si riconoscono nel Paese di origine, anche perché spesso non ci sono neanche mai state.

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